Settembre 1945, La voce dell’Istria

Ecco la serie delle Cronache triestine in cui è descritta la vicenda di Trieste nella primavera del 1945. E’ un resoconto spontaneo, pieno di impeto, indignazione, passione. In chiusura, un componimento suggestivo, una metafora della guerra e dell’insensatezza del comportamento umano.

 

Silvano Villani, Cronache triestine 1- La voce dell’Istria, “Università”, anno I, n. 42 – 29 settembre 1945

Il 26 aprile, alle 18.30 la radio Svizzera annunciò l’insurrezione dei patrioti nell’Italia del Nord. Per Trieste corse un fremito: “tocca a noi ora: che cosa aspettiamo?”. Ma la giornata passò calma: la gente era seria. Nella mattinata del 27, le voci in circolazione dicevano che il Vescovo si era messo in contatto con i tedeschi. Baldoria di commenti, di speranze, di previsioni ottimiste.

Nel pomeriggio, invece, gli abitanti della zona del porto ricevettero l’ordine di allontanarsi al primo segnale delle sirene di allarme: il porto, le sue installazioni, nonché tutti gli edifici di una certa mole in città, dovevano saltare. Ore di sconforto. Ma, secondo le voci, il Vescovo stava ancora discutendo dal mattino. Finalmente a sera “radio baba” (in lingua italiana: radio-popolana) annuncia che le trattative si sono felicemente concluse, soldati tedeschi disarmati passeggiano per la città, contenti che le cose si concludano così bene, i patrioti radiosi hanno infilato i bracciali tricolori, radiosa la popolazione li saluta, coccarde e bandiere d’ogni parte, canzonette e risate di cuore, la città salva, il porto  tanti altri quartieri minati, intatti – non più sangue, non più vittime, non più odii, non più oppressione – dalla schiavitù alla libertà senza che la guerra debba passare per le strade di Trieste: i triestini hanno di che gioire, sono ben fortunati. A sera però, il cannone comincia a tuonare sulle alture. Supposizioni d’ogni genere: “Sono salve di festa – sparano contro gli alleati – son fuochi d’artificio ecc.”. Ma i triestini non volevano darsi per intesi: “Siamo allegri e lasciamo che sparino: oramai tutto è finito”. Però il cannone continuò a tuonare per due giorni e due notti. Il 29 fu una giornata di dubbi e di attesa. Verso le 5 del mattino del 30, due colpi della sirena d’allarme. Era il segnale convenuto: i patrioti corsero ai loro posti, ad essi si unirono gruppi della Wermacht contro, si diceva, la SS che non si voleva dar per vinta.

Ma niente di sicuro, comunque, colpi di fucile, raffiche di mitragliatrice da tutte le parti della città: e il cannone sulle alture. Perché si combatterà, contro chi? La cosa non fu e non è chiara. Mi raccontava un prete che il guaio era da imputarsi ad alcuni dei capi del C.L.N. ex fascisti, che per farsi perdonare il loro passato, intendevano valersi della fama d’aver capeggiato una insurrezione popolare. Ma ciò non ha niente a che fare con i patrioti che si batterono, caddero. A sera i tedeschi erano rinchiusi nel castello di san Giusto, nel Palazzo di Giustizia, in qualche altro edificio, e non molestavano più. La città era in potere dei patrioti, i prigionieri politici liberati, tutti in festa un’altra volta. Questa è la buona, finalmente: si attenderanno le truppe alleate, più precisamente si attenderanno i bersaglieri. Però il cannone aveva cessato il fuoco, lassù. Il mattino seguente, vedemmo passare cauti, in fila indiana, sotto i muri, i primi scaglioni delle truppe di Tito. Allora comprendemmo contro chi il cannone aveva tuonato quei giorni e quelle notti, perché i tedeschi s’erano arresi a noi senza combattere, e perché il C.L.N. italiano aveva tanto temporeggiato. I patrioti erano stati disarmati e inviati a casa. L’accusa lanciata contro il comitato era: Fascismo. Il che richiede alcune parole di spiegazione. Subito dopo l’armistizio i partigiani jugoslavi erano dilagati nell’Istria, sopra Trieste e Gorizia, e in parte dal Friuli. Di conseguenza, le prime formazioni di patrioti italiani incapparono in queste truppe e fecero causa comune con esse: il nemico era lo stesso, i tedeschi. D’altra parte, i partigiani jugoslavi, comunisti, attirarono anche a sé, in quanto già costituiti e organizzati, i comunisti slavi e italiani di quelle regioni. Di contro, gli italiani non comunisti si avvidero del pericolo, e il C.L.N. si trovò così di fronte a due prime alternative: o andare in montagna ed entrare nell’orbita di Tito e fare la sua politica, o rimanere in città e arrangiarsi qui. Scelse questa seconda. Aveva gli uomini, ma gli mancavano i mezzi e allora distribuì gli uomini nei corpi che i tedeschi avevano messo in piedi: Guardia civica, questura, X M.A.S., organizzazione T. forze italiane in servizi di polizia nell’ambito della sola Trieste, sempre però ai servizi della guerra nazista. Scarsi quindi i sentimenti fascisti di questa gente: i corpi rappresentavano a Trieste un mezzo per imboscarsi; i tedeschi avevano d’altro canto interesse a tenere tutti questi uomini, pericolosi se liberi, sotto controllo. In definitiva, i patrioti italiani a Trieste si trovarono di fronte a queste possibilità: 1) il campo di concentramento in Germania; 2) in montagna ai servizi di Tito; 3) con i patrioti del Veneto, della Lombardia, del Piemonte, ecc.; 4) nei O.D.T., e così via. Al momento opportuno essi sarebbero accorsi equipaggiati ed armati, come infatti avvenne. Ciò era favorito anche dalla politica tedesca che, per stanare la zona del Litorale Adriatico dal resto dell’Italia e sottrarla all’influenza fascista, favoriva il sorgere d’una opinione pubblica autonomista: di conseguenza, adoperava questi corpi in Trieste, e che sarebbero rimasti in Trieste, ai servigi dei Tedeschi. La prima non si discute. La seconda voleva dire consegnare Trieste agli Slavi, la terza era privare Trieste di forze di cui ci sarebbe stato strenuo bisogno per salvarla in favore di ragioni per le quali il bisogno era minore. La quarta lasciava la possibilità di disertare al momento opportuno e di salvare la città. La gran parte scelse questa quarta soluzione – e non saranno mai abbastanza valutate le sofferenze, le umiliazioni, le torture cui si sottopose questa gente volontariamente, quando avrebbe potuto scegliere la lotta in montagna, con i patrioti delle altre regioni dell’Italia, e là combattere il nemico, a viso aperto, con la prospettiva d’un domani glorioso, invece di dover reprimere ogni giorno l’odio, e servire l’oppressore per mesi ed anni, e assistere impotente alla deportazione del compagno sospettato, e non reagire perché la causa trionfi, e per giunta con un domani ambiguo, anche una volta vinto e caduto l’oppressore, quel domani infatti che per bocca degli Slavi, li ha infamati con il nome di fascisti. Bisogna pure che si sappia un giorno in quali condizioni, sotto quale terrore la democrazia cristiana s’è battuta a Trieste, insidiata e sabotata dalle organizzazioni slave, infiltrandosi con una pazienza ed una perseveranza da martiri tra ingranaggio e ingranaggio della macchina terroristica nazista. Bisognerà pure che si sappia, un giorno o l’altro, e che si faccia giustizia.

(Continua).

Silvano Villani, Cronache triestine 2 – La voce dell’Istria, “Università”, Anno I, n.44, 13 ottobre 1945

Quel mattino dunque vedemmo per la prima volta l’esercito di Tito. La gente guardava, riservata, in attesa di pronunciarsi: la fama che li aveva preceduti era contraddittoria, parlava di inaudite crudeltà, di stragi incredibili, e di eroismi meravigliosi, di battaglie leggendarie. Ma subito, innumerevoli gruppi d’irregolari cominciarono a scorazzare per la città, armati, su camion, foto furgoni, carri, biciclette, al canto degli inni della Rivoluzione, e acclamando appassionatamente al loro capo: Bandiera rossa! E minacciavano fucilate a chi non obbediva. Qualche soldato slavo sparava per giubilo sulle bandiere italiane. La gente commentò: e cambiò colore (è cambiato il colore). Più tardi, calmatasi la spontanea manifestazione popolare, furono attaccati i centri di resistenza tedeschi. Cannonate, raffiche di mitragliatrici, fucilate, bombe – quella notte e il giorno seguente. Le palle fioccarono per tutte le strade, nei luoghi più impensati: i civili morirono a decine. Ma i tedeschi non si inquietarono: chiusi nei possenti edifici – Palazzo di Giustizia, Castello di San Giusto – rispondevano calmi e sicuri alla confusione dei colpi dei partigiani. Finalmente, nel pomeriggio, giunsero, tanto attesi, i Neozelandesi. Come la notizia si propagò, a fiumane la gente si riversò per le strade a salutarli. Era la liberazione. Gli slavi guardavano e covavano rabbia. Ma dopo due ore di trattative, i tedeschi non s’erano arresi ancora: con ogni probabilità questi intendevano arrendersi solo agli alleati e non anche agli Jugoslavi. Comunque, fallite le trattative, la battaglia ricominciò: questa volta furono gli alleati ad aprire il fuoco, un fuoco d’inferno. La cosa durò un quarto d’ora. Il giorno seguente, gruppi che restavano nei sotterranei furono affogati dai pompieri, comunisti anch’essi.

Il pomeriggio ci rendemmo conto di quale fosse la nostra liberazione. Con legittimo stupore, i triestini videro avviarsi verso il centro della città, lunghi cortei di gente – donne in grandissima parte, dai volti paonazzi, in fogge inconsuete di vestire eccetera – che urlava disciplinatamente. Procedevano per tre, in testa truppe di Tito ben armate, bandiere, vessilli, gagliardetti, no, gagliardetti neri no, rossi, erano molto belli a vedere. C’erano delle squadre di ragazze vestite tutte eguali, e da lontano sembravano giovani italiane: da vicino invece si vedeva che la gonna non era proprio nera nera, anche se la camicetta era bianca, e neanche la cravatta era nera nera. I maligni dicevano che le scarpe se l’erano messe su all’entrare in città. Infatti, non erano di Trieste, venivano dai paesi remoti dell’Istria, contadine proletarie comunque, accese di purissima fiamma d’amore per il compagno proletario capo Duce Tito.

Acclamazioni, canti della rivoluzione, una Trieste nella nuova federativa ecc… Jugoslavia di Tito. Poi disciplinatamente il corteo rientrò alla base. La qualcosa durò tre giorni. Fu dichiarato lo stadio d’assedio, coprifuoco dalle 15 del pomeriggio alle 10 del mattino seguente: discorsi in cattivo italiano dicevano a quelli che in anni di dolore non s’erano convinti ancora, che la patria è là dove si mangia e si beve. Ma i triestini ostinati non credevano che in Jugoslavia si mangiasse e si bevesse.

Dopo tre giorni di tali spontanee manifestazioni popolari della cittadinanza triestina, il cinque maggio fu visto passare per le strade un piccolo corteo con la bandiera italiana in testa che se ne andava quieto e zitto. Comprendemmo la tattica slava. Quel corteo rappresentava la minoranza italiana di Trieste, la quale anche era d’accordo sul fatto di W Trieste nella nuova federativa ecc… Jugoslavia di Tito. La colonna ignara attraversò piazza Goldoni e imboccò il corso – urla, clamore e dal corso si riversò nella piazza una fiumana enorme di gente, di vessilli (italiani senza stella rossa) di grida “Italia”, di cappelli in aria. Il nuovo corteo ingrossava a vista d’occhio, a frotte il popolo accorreva da tutte le parti, si passava per le strade, e i tricolori spuntavano d’ogni finestra, una finestra di tutti – qualcheduno in disparte piangeva. La folla tornò verso il corso: alcune fucilate scoppiarono, all’angolo d’una via trasversale, alcuni slavi sparavano sulle bandiere e sulla folla, e ridevano dell’improvviso terrore.

Il corteo si ruppe in due tronchi; nella confusione però, pochi s’avvidero d’alcuni che erano caduti. Altri afferrarono le bandiere e superarono lo spazio; dietro ad essi il resto della folla e le due parti del corteo si ricongiunsero. Altre fucilate, altri caduti; la fucileria si propagò alle vie adiacenti e per tutto il centro della città. Un soldato neozelandese anche fu colpito. La folla si disperse, le fucilate fioccavano dalle finestre e dai portoni. Uno gridò – insorgiamo questi sono peggio dei nazisti! Un altro rispose -basta morti – ora la cosa andrà da sé.

Pensai che “ça ira” era in francese la traduzione più esatta di quelle parole. Si tratta sempre di libertà. I morti erano una ventina. Da noi non partì un colpo né fu fatto un gesto di violenza. Il giorno dopo, quel lurido giornale che si chiama “Nostro Avvenire” commentò l’avvenimento: tra gli arrestati c’era un ufficiale dell’ex esercito repubblichino, un povero diavolo d’imboscato, senza infamia e senza lodo. Gli trovarono indosso il tesserino, che per gli ufficiali in queste zone era compilato in tedesco ed italiano, lo fotografarono e lo pubblicarono sotto il titolo sensazionale: “Un agente segreto della Gestapo (…) ha provocato la sommossa (…) di ieri”. Il giornale sapeva di mentire e sapeva anche che i triestini sapevano che era tutto ciò una volgare menzogna. Vecchi beoni commentarono – ma dai (ma va là) i fascisti i iera più coli (i fascisti erano più scaltri); dei morti, poi, il giornale disse: “La giusta punizione è caduta su questi impenitenti fascisti”. 5 maggio. Non sarà male se gli italiani tutti ricorderanno.

(Continua)

Silvano Villani, Cronache triestine 3 – La voce dell’Istria,  “Università”, anno II, n. 1 – 3 novembre 1945

Poi furono giorni squallidi. E “Nostro Avvenire” mentiva e sobillava. Nel primo numero diceva: “Nel 1918 un’Italia imperialista, che già recava in sé il germe dell’Italia fascista, occupò le nostre terre dicendo di redimerle”. E fu invece, oltre che la rovina economica, anche la più tirannica oppressione. Il che è più bello da leggere senza commento. In altre parti poi: “Partendo dalla premessa che queste zone appartengono alla Nuova Jugoslavia – come stanno a dimostrarlo ragioni etniche geografiche ed economiche – e come hanno deciso le popolazioni…” poiché dovete sapere, o signori, che il bianco che vedete non è bianco, ma è nero. Questo per le ragioni geografiche: quelle etniche poi – all’ingrosso 600.000 italiani e 400.000, nel cuore dell’Istria, slavi. A parte il fatto che di questi 400.000 bisogna vedere quanti anelano ad unirsi con la Nuova Jugoslavia (Stuparich è nome slavo, ma quanto a voler unirsi con la Nuova Jugoslavia ne corre): del resto, tutta la costa fino a Fiume e più giù ancora, è italiana. Capodistria, Pirano, Parenzo, Rovino, Pola, Abbazia Samana – vi si parla il veneto. E l’economia è tutta là, sul mare. Quanto al retroterra – il retroterra di Trieste è Cecoslovacchia, Austria, Ungheria. Quanto infine alla decisione delle popolazioni: beh, questo è un argomento che se appartenesse alla Nuova federativa ecc. Jugoslavia di Tito non oserei affrontare – a parte il fatto che  il numero di coloro che dovrebbero decidere in merito, cioè le popolazioni, è molto diminuito per i disgraziati irridenti locali (vedi foibe), anche perché non è affatto necessario che la popolazione decida: decide Tito per essa, ché egli sa meglio ciò su cui il popolo deve decidere – infatti nella dottrina del Fascismo sta scritto che i capi solo devono decidere ché la maggioranza può essere spesso in errore.

Il giornale “Nostro Avvenire” fedele discepolo, ricalcava le orme dei maestri fascisti: tendenzioso, ballista (come si dice a Napoli) parolaio retorico – lo stesso orrore per la discussione, intransigente – pomposo: propaganda però di gran lunga meno abile di quella fascista. Il che risulta dal discorso del sig. Hardely: egli dice che l’esercito iugoslavo ha liberato Trieste – il che non è vero – che ha salvato la città – il che non è vero, senza il C.L.N. del posto oggi non ci sarebbero che nuvolette di polvere; che è una calunnia che la Jugoslavia voglia mettere il mondo dinanzi ad un fatto compiuto – e invece non è una calunnia: infatti, perché tanta fretta nel sostituire il governo militare con un governo civile a sembianza popolare? Perché un governo militare in caso d’occupazione alleata, sparirebbe come in Carinzia ad esempio – subito subito. Quanto poi all’ordine che gli iugoslavi vi avrebbero portato… la gente deve star chiusa in casa, tutto è fermo, ogni attività annientata.

Caffè chiusi, cinematografi chiusi, gente svogliata per le strade. Così passarono i giorni. Momenti di vita nelle ore della trasmissione di Radio Londra – si tornava alla radio a rinfrancarsi, come nei periodi più oscuri della guerra. Quando se ne vanno – se ne vanno domani, tra una settimana, tra due, non se ne vanno più.

Si guardarono passare gli inglesi, gli americani, disarmati come civili, senza preoccupazioni, così: figli di grandi nazioni libere, che sapevano difendere e tutelare le loro libertà dovunque fossero. Il contrasto era fortissimo tra Alleati e Iugoslavi: gli alleati allegri, disarmati, sereni, volti puliti e aperti, vestiti eleganti e leggeri – estivi – e gli slavi sporchissimi, armati fino ai denti – divise pesanti, arrangiate con una casacca tedesca, un paio di calzoni italiani, un berretto americano, una camicia ???? – volti ottusi, zigomi sporgenti, fronti basse, passo pesante e lento, come di gente stanchissima, soprattutto sporchi incredibilmente. Passavano pattuglioni per la città, di undici uomini – con fucili, bombe, mitragliatrici, sguardi ostili sui cittadini – sguardi meravigliati lungo gli alti edifici si accamparono in Piazza dell’Unità, sotto i Portici, poi ne rimasero per parecchi giorni, un tanfo tremendo.

Del Municipio, della Stazione centrale fecero letamai. L’Unità ha un bel parlare di questi soldati dall’aspetto marziale (marziale: come i commenti alle sfilate delle Camice nere…): non andarono a donne no, perché le triestine non si sentivano intenerite dinanzi ad essi. Circolarono poi storielle sul loro conto, si parlava d’uno di questi soldati che s’era spaventato al sentir “parlare un telefono”: esagerazioni, certo, ma segnalano l’opinione. Trieste mette alla berlina i suoi nemici – così fece dei fascisti, così fece dei tedeschi. Quanto poi al loro comportamento… un gruppo un giorno irruppe nel palazzo del Lloyd per farsi consegnare quattro milioni che erano custoditi nella cassaforte: un ufficiale inglese li fece desistere. Quanto poi all’ordine che essi avevano portato, se n’è già parlato: non si lavorava più. Nelle fabbriche i comunisti declamavano, discutevano, inneggiavano alla rivoluzione proletaria, ma quanto a lavorare – sordi gli operai – gli slavi s’erano fitti in capo che la gente dovesse lavorare senza esser pagata. Il governo e i posti direttivi erano stati affidati a individui incompetenti: sprechi assurdi e assurde restrizioni. Sulla Guardia del Popolo, poi voglio fare delle precisazioni. Nel commissariato sito in via Bruner era stato nominato comandante un truffatore, noto tra i giovani aspiranti truffatori di Trieste, vicecomandante un ladro già varie volte condannato per furto, scasso e borseggio, il quale anzi, approfittò della carica per rubare con più libertà, fu arrestato anche, ma poi rilasciato e reintegrato nelle sue funzioni: i suoi profitti… di regime, secondo le confidenze degli intimi, assommano a 50 milioni. Il comandante si chiama Milo, il vicecomandante Eluario Petassi.

(Continua).

Silvano Villani, Cronache Triestine, 4, “Università”, anno II, n. 2 – 10 novembre 1945

Un ragazzino passa, e sbadatamente straccia un manifestino penzolante: due soldati gli sono addosso e lo malmenano senza pietà. C’erano anche scritte italiane – l’Unità a tal proposito cita una sequela di scritte italiane: viva Trieste italiana, viva Fiume e poi vicino, viva il Duce. Losca insinuazione. Abbiamo inteso “viva il Duce” e di più ancora. Abbiamo visto: “Bibì (lo chiamavano così a Trieste) torna, tutto perdonato”: ma sotto un ritratto di Tito, e nel quartiere operaio più notoriamente comunista della città, S. Giacomo. Infatti il ritratto di Tito era dovunque: come nei tempi d’oro del Fascismo quello del Dux. Anzi, un giorno comparve sul giornale l’annuncio: “Si informa il pubblico che un gran numero di ritratti del Generale Tito sono pronti, hanno diritto alla precedenza per ottenerli gli uffici pubblici e privati, onde affiggerli sui muri…”

Ritornando alle scritte sul muro, quelle di parte italiana erano rare. Il C.L.N. era stato costretto a scomparire un’altra volta, si trovava un’altra volta a dover lavorare clandestinamente, e sotto una più rigida oppressione. Tuttavia pubblicava manifestini e giornali: ciò teneva un po’ su il morale. Ma la serie delle istituzioni fasciste non è finita: non ho parlato delle adunate di popolo.

Queste adunate erano un altro motivo di conforto per noi. Gli operai andavano nelle fabbriche (alcuni): là venivano fatte concioni, tenuti discorsi, infuocati gli animi; poi, bandiere in testa, ben inquadrati, gli operai s’avviavano verso piazza dell’Unità. Passano per la città zitti, con i volti bassi, annoiati, indifferenti. Ogni tanto uno, preso da un accesso, si metteva a urlare: “Viva Tito, viva la nuova ecc… Jugoslavia di Tito”. Allora un rado coro rispondeva: “Viva”. Intanto sui muri, per le strade, sulle cassette della posta manifestini: “Oggi, alle ore x, tutto il popolo in Piazza dell’Unità”. All’ora x si vedeva in un angolo della piazza un gruppetto che già da qualche mezz’ora, tutto rosso, se ne stava lì a urlare “Evviva”, circondato da carri armati e cordoni di soldati. I fotografi acuivano l’ingegno per cogliere nell’obbiettivo il gruppetto solo e anche il resto della piazza vuota. Il giorno dopo sul giornale appariva la foto sotto il titolo: “Una folla imponente ieri ha gremito la nostra più grande piazza e ha provato un’altra volta la sua indiscussa fede ecc…”.

Ciò avvenne parecchie volte. Poi la passione per le adunate si affievolì. Intanto la gente spariva: a notte, colonne di civili marciavano lungo la via Carducci verso la stazione centrale. Ma non erano i fascisti. Erano polizia. Guardia civica e, in massima parte, borghesi. Qualcheduno veniva giudicato dai Tribuni popolari.

Intanto il comando alleato è affollato di gente che protesta: mi han portato via il marito, il padre, il fratello (era stato imposto a quei cittadini che possedevano armi di consegnarle, ma i molti che s’erano presentati, erano stati trattenuti assieme alle armi, ed erano spariti); altri volevano esser portati fuori di Trieste. Il comando diceva: è una cosa impossibile, una situazione politica delicata. Un giorno scende da Basorizza una delegazione che viene a protestare presso il comando alleato: le foibe son piene di cadaveri, l’aria è appestata, non si può vivere là vicino.

Le foibe, per chi non lo sa, son crepacci nel suolo, profondi talvolta qualche centinaio di metri. Di tali crepacci l’Istria ne annovera centinaia e centinaia. Gli Slavi usano allineare lungo questi crepacci la gente antipatica: gli individui sono con le mani legate dietro la schiena, una corda poi unisce tutte queste paia di polsi. Quando son bene allineati, una scarica di mitra. Chi è colpito e chi no. Ma chi è colpito, per la legge della gravitazione universale, cade a terra, in questo caso nel crepaccio e trascina con sé nella caduta i compagni di corda. Così avvenne che da una foiba furono estratti cadaveri di persone senza ferite d’arma da fuoco. Ora si domanda: quale procedimento si usa, quali tessere, documenti e carta bollata sono richiesti per annoverare questi guerrieri intrepidi tra i criminali di guerra? Ma gli alleati scuotono il capo: “Sapete, è una situazione politica delicata…”. Intanto, per la città si diffondeva il tifo petecchiale e la fame imperava. Il popolo si nutriva d’insalata – l’unica vivanda in circolazione – però aveva il pane bianco. Il giornale consolava constatando costernato: “Ma sapete, cittadini, quanta farina consumate al giorno per il pane?” E pubblicava la cifra.

(Continua)

Silvano Villani, Cronache Triestine, 5 “Università”, anno II, n.3 – 17 novembre 1945

Così si viveva. Tuttavia Trieste riguadagnava la sua allegria. Il Corso si chiamava una volta Vittorio Emanuele III – poi vennero i repubblichini e si chiamò Ettore Muti, poi vennero gli Slavi e si chiamò Corso Tito. E i triestini si consolarono: xè corso Vittorio, xè corso Ettore Muti, correrà anche Tito.

Poi, negli ultimi giorni, si gridò anche “viva Tito”, il che significa: viva Trieste Italiana Temporaneamente Oppressa. Ironia, buonumore: questa la sua arma terribile. Il morale era sempre più alto anche per merito d’un uomo: Angelo Cecchelin. Egli è veramente l’anima genuina, la più amabile, di Trieste. Per vent’anni la sua vita fu un viavai tra il palcoscenico e la prigionia: egli recitava, i fascisti l’acchiappavano e lo mettevano dentro. Ma poi ne usciva e raccontava i nuovi motti arguti che aveva meditato nella cella: la città rideva poi per una settimana alle spalle dei gerarchi, rossi di rabbia. Ed egli tornava al sole a scacchi. Non risparmiò al fascismo una delle sue frecciate – e Trieste, dietro a lui, sognava la libertà e demoliva a risate il Regime.

Per chi lo vuol vedere egli è ancora là, sul palcoscenico del Filodrammatico, al suo ennesimo spettacolo. Come sempre, il teatro è affollato fino all’inverosimile: la sua vena non si è esaurita né si esaurirà mai, fin che avrà vita – ed altri poi raccoglieranno la sua tradizione di allegria serena, di libertà.

Oramai è vecchio, ma la sua lotta è finita, ed è finita bene, i regni, gli imperi sono crollati, ma il suo teatro è ancora in piedi, e la sua risata è più schietta di prima, e l’amore del suo popolo, dei suoi amici concittadini lontani e vicini, vive più che mai. Una volta, recitava con i militi della Brigata Nera seduti in prima fila che gli puntavano il moschetto sotto il naso: forse che ebbe paura? Oh, Dio, paura un poco, forse sì, ma lo spettacolo andava avanti lo stesso. E oggi come allora: ma oggi non ci son moschetti, oggi ci sono fissi occhi sereni, bocche che ridono senza timore. Noi si perdoni la digressione, ma era necessario ch’io facessi a Cecchelin un omaggio, anche se molto modesto, da qui, da Napoli, che certo poco lo conosce, ma che deve sapere come a Trieste s’è pensato e vissuto nei vent’anni di regime fascista; soprattutto perché Trieste senza Cecchelin non è comprensibile. Un omaggio, o meglio, più alla nostra maniera, un piccolo segno di tanto affetto.

Tornando a noi: le cose procedettero immutate fino al 12 giugno. Il 12 giugno, alle 9, secondo le decisioni prese in seguito agli accordi, le ultime unità delle truppe di Tito uscirono dalla città. Quello che i tedeschi non rubarono, lo rubarono essi. Dalla Banca commerciale portarono via più di 100 milioni, dall’ospedale militare di via P. Severo, portarono via persino i rubinetti; per più giorni, camion carichi di roba uscirono dalla città, fino al 12 giugno, ore 9. Adesso, finalmente, tutto era finito: la guerra era veramente terminata, la pace veniva anche per noi. Ci fu un giorno, infatti, che tememmo seriamente che la battaglia per Trieste ricominciasse più tremenda che mai: d’una parte entrarono in città gli Alleati, dall’altra i T 34 russi, e si schierarono fronte a fronte.

Furono ore angosciose. Ma stavolta tutto era finito per davvero. La gente usciva e correva per le strade come ad un richiamo: rispuntavano coccarde e tricolori. Piazza dell’Unità si riempiva di gente. Quando alla Torre del Municipio l’orologio batté le undici, erano stipate la piazza, la marina, e il corso su su, fin dove giungeva l’occhio. Enorme la partecipazione dei soldati alleati. Io non vidi mai in una volta sola tanta gente. Trieste ora poteva esprimersi liberamente.

Un episodio. Nel mare di bandiere italiane, c’era anche una bandiera slava. Coraggiosa. Un uomo protestò e volle farla sparire. Ma la folla attorno cominciò a gridargli contro: lasciate stare, ognuno abbia i suoi sentimenti, libertà per tutti. E ripensai a quella volta che vidi soldati slavi sparare su bandiere italiane. La gente ballava per le strade, allegria tutto il giorno. Ma, a sera, la rabbia slava si palesò. Vennero in città dai sobborghi gruppi di giovinastri, di turbolenti, di rissosi. Se la presero prima con le bandiere italiane che portavano lo stemma sabaudo – il re è fascista – dissero. Ma, a sera, strapparono quello stemma.

E cominciò la caccia ai fascisti. Almeno in teoria. Ma io racconterò un episodio: un signore si trova in piazza Goldoni, tien per mano due bambini, che potano una bandierina italiana ciascuno. Inciampa in una squadra di questi giovani che lo strappano ai bambini e lo bastonano a sangue, fino a fargli perdere i sensi. Il signore, di mia conoscenza, era checo e comunista, perseguitato dai fascisti per anni ed anni: il “L’amatore”, organo del P.C. commentò, sotto il titolo “Giustizia popolare”: “I baldi giovani, sorpreso un noto ex squadrista in Piazza Goldoni, lo bastonarono…”: sulla manifestazione, un piccolo trafiletto in cui si diceva che i partecipanti erano tutti reazionari.

La persecuzione durò i giorni seguenti: erano presi di mira questurini, studenti, e in generale tutti coloro che dall’accento si facevano notare come non di Trieste: comunque bisogna riconoscere che nessuno fu ucciso. Ciò è da tener presente. Ma è anche da tener presente che la persecuzione non era rivolta contro i fascisti ma contro gli italiani – alla fine contro Trieste stessa. Solo dopo alcuni giorni gli Alleati si decisero a impedire questi fatti. Ora Trieste attende il verdetto di Londra: ma voglia il Cielo che i signori che là decideranno sulla sua sorte, siano tanto oculati da non condannare una città all’oppressione – Trieste ha parlato due volte: la prima il 5 maggio, ed ha pagato il suo diritto con dei morti; la seconda il 12 e di nuovo è dovuta soggiacere ala violenza dello squadrismo rosso, come già soggiacque a quella dello squadrismo nero. Fra Occidente e Oriente, Trieste ha scelto l’Occidente – ma se cadrà sotto il tallone slavo, chi ci salverà dall’Oriente che s’avanza, compatto e inesorabile? La soluzione del problema di Trieste significa la soluzione dei problemi dei confini, significa la soluzione del problema delle relazioni tra le nazioni, significa la soluzione del problema dell’unità dell’Europa. I triestini hanno fiducia – sennò, la disperazione, la morte. Gli uomini di Londra non tradiscano questa fiducia. E gli Italiani amino i loro fratelli di Trieste. Se lo meritano.

 

Silvano Villani, Come ogni sera, “Università”, anno II, n. 6 – 8 dicembre 1945

Da tempi immemorabili lungo l’Occidente incendiato corrono le dune in fuga silenziosa e immobile. Anche stasera la strana carovana sale e scende, in cammino.

E cammina, cammina, i ciechi in lunga teoria, i volti rivestiti, la mano rattratta sulle spalle del compagno che precede: come la loro fatica nella sabbia leggera, il loro monotono lamento si trascina e affonde nel silenzio.

Il deserto non ha confini che d’illusioni: a sera si popola d’ombre anonime, ombre di silenzio, ombre di nulla.

Le orbite mote, spalancate sul cielo profondo: una bocca contratta si spezza e l’urlo sgorga, e subito uno dopo l’altro, lungo tutta la carovana, urla angosciose, su su, si sciolgono e salgono, su su, e ricadono sui disperati; ma tutt’attorno, fino ai lontani orizzonti dove si perde il mareggiare del deserto l’inutile, l’immobile, il moto silenzio.

– Nessuno ha udito, nessuno mai udrà.

Cammina, cammina, la sabbia attorno alle caviglie sale e s’avvolge, tepida, morbida, come un amplesso che inviti al riposo, riposo di poco, riposo di nulla. Il piede a fatica s’estrae, scarno e levigato, e procede.

Forse un genio beffardo ha sibilato il suo velenoso ritornello negli animi bui. Come ogni sera! Come ogni sera!

Ora girano in circolo, e il primo raggiunge l’ultimo, con le mani che brancolano l’afferra ed è un urlo di preda atterrita, e lo prostra, il circolo si serra repentino e la rissa scoppia cieca, assurda, feroce, di ansimi, di rantoli…

Poi, ad uno ad uno, il secondo dietro il primo, il terzo dietro al secondo, riprendono il cammino, e la massa si sgroviglia, la massa nera dei ciechi in cammino, in un’altra direzione, in qualunque direzione.

I corpi contorti sulla sabbia sussultano ancora, le occhiaie vuote e affondano, affondano.

Scomparsi nell’ombra, ombra di pace, ombra di nulla.

E nella notte sui profili delle dune nere, cammina cammina la carovana dei ciechi – da quando? Da tempi immemorabili, la notte sul deserto, un deserto di nulla, un deserto di gelo.