1950: Di rigore l’ombrello in camera da letto

Silvano Villani, Di rigore l’ombrello in camera da letto, “Il Momento”, anno VI, n. 25 – mercoledì 25 gennaio 1950

A 40 Km da Roma, come al tempo delle palafitte

Il Senatore Manghi ha rivolto una interrogazione urgente al Ministro dell’Interno, dei Lavori pubblici, dell’Agricoltura, e all’Alto Commissario per l’Igiene e la Sanità per sapere quali provvedimenti si intendano prendere a favore della laboriosa e numerosa popolazione di Carchitti, frazione del comune di Palestrina, la quale non ha ancora che un decimo di case in muratura, è priva di acqua potabile, non ha luce elettrica né servizi di trasporto né strade né terra da lavorare, in mezzo ad un estesissimo latifondo incolto. Il “Momento” ha voluto far constatare la situazione dal proprio inviato speciale Villani, di cui cominciamo oggi a pubblicare il primo servizio.

 

I

 

Venendo dalla via Casilina, la prima che si incontra è la chiesa: un parallelepipedo rosso, cascato in piedi in mezzo al prato verde smeraldo, giù dal monte che gli si drizza alle spalle. Poi, dietro la chiesa, una serie di fastelli di legna secca, bene allineati, simili a quelli caricati sui somari che s’incontrano per la strada, solo un po’ più folti. E sono le case di Carchitti.

Come si sparge la notizia che uno straniero s’avvicina al paese, le donne si fanno incontro, tutte eccitate ma silenziose: salutano gentilmente e, senza smettere i loro lavori a maglia, gli si accodano dietro. Tutte lavorano a maglia, bambine, madri e nonne. Preparano innumerevoli paia di calze per i loro uomini: le bambine per i futuri mariti, e madri per i futuri mariti delle figlie, le nonne per quelli delle nipoti. Sono avvolte in pezze dai colori vivaci, blu, rosso, verde, giallo, strette intorno ai corpi con strisce di tela. Poi si mettono a bisbigliare, commentando la venuta dello straniero. Com’egli si volge, per cercar di capire quel che dicono, s’arrestano e ammutoliscono.

Carchitti è una strada fiancheggiata da alcune decine di capanne di legno. A un certo punto la strada s’allarga, ed è la piazza principale, il centro, il cuore pulsante di vita di Carchitti: la fontana. Un becco di tubo che elargisce un filo d’acqua. Il grosso delle massaie è radunato là, con le botticelle e le anfore. Quando il tempo è secco, il cuore smette di pulsare, l’acqua no viene più e le donne si caricano le botti in spalla e vanno al Fosso. “E’ molto distante?” chiedo. E le donne che non aspettno altro gridano in coro: “otto chiometri”. “Bugiarde”, interloquisce qualcuno degli uomini che s’è accostato al gruppo: “saranno poco più di quattro”. “Fateli con le botti in spalla, e vedrete quanti sono”, ribattono le donne accalorate.

Ma da qualche mese, grazie alle piogge, il filo d’acqua non manca e la discussione quindi si esaurisce presto. L’acqua giunge per un tubo largo non più del collo d’una bottiglia di spumante dalla fonte Barberini, che sta da qualche parte nelle proprietà del principe Barberini. Anche il terreno su cui sorge Carchitti apparteneva al principe una volta. Poi lo donò a certi contadini di Capranica che vi avevano fissato le loro abitazioni. Capranica è un ingrato, sassoso paese che sta dietro il monte su cui è abbarbicata Palestrina. Nella buona stagione, i contadini partivano colle famiglie, le pentole e gli attrezzi per venire a lavorare sui campi del principe Barberini. Tiravano su la canna di paglia sul luogo dove c’era da zappare, sostavano un paio di settimane e, finiti i lavori, tornavano a Capranica. Venti chilometri andare, venti tornare. A Capranica si rifacevano la capanna. Capanna qua, capanna là, tutt’una cosa, pensarono i contadini, e alla fine di una stagione, alcune famiglie non fecero ritorno al paese. In seguito, il principe Barberini concesse ai coloni la terra su cui avevano drizzato le capanne di paglia. Così nacque Carchitti. Queste cose succedettero settant’anni fa secondo alcuni, cento secondo altri, centoventi secondo altri ancora. Le origini di Carchitti cominciarono ad avvolgersi nella leggenda: “Al principio c’era il principe Barberini”. E c’è ancora. Pare, nell’ascoltare i contadini che ne parlano, che sia sempre lo stesso: lo stesso principe oggi, e settanta, centoventi anni fa.

La comunità di Carchitti visse in capanne di paglia fino alla guerra del ’18, che rapì al aese tutti i suoi uomini. Tornarono in meno, ma con audaci idee di rinnovamento, che consistevano nel voler sostituire le capanne di paglia con altre di legno. L’operazione si protrasse per venticinque anni. La seconda guerra mondiale rapì daccapo gli uomini, e li portò molto lontano, stavolta: in Africa, in Francia, in Germania, in Grecia, in Russia. Tornarono perciò con idee più audaci ancora: pretesero di sostituire le capanne di legno con case vere, di pietra. Faccenda complicata. Perché il legno costa, sì, 600 lire al metro, ma si ricava agevolmente dal bosco che è poco lontano alle spalle del paese, e per trasportarlo basta il somaro. Mentre le pietre e la pozzolana bisogna andarle a cercare molto distante, e per trasportarle l’asino non basta. A parte il fatto che la strada non è praticabile che a piedi o a dorso di somaro. Cosicché oggi, su 250 case, una per famiglia, una ventina appena sono in muratura. Il resto sono capanne di legno. Di pglia non ce ne sono più: l’ultima è caduta l’altro giorno.

La capanna di legno ha un vano solo che fa da cucina, da sala da pranzo, da stanza da letto. La cucina è il fornello: quattro pietre in quadrato. Le fessure fra gli assi fanno da camino. Il letto è un sacco di foglie secche ficcato tra quattro pali piantati in croce a terra. Lo chiamano “repazzola”. Là dentro la famiglia vive con tutti gli animali, domestici e non: padre, made, figli, figlie, porci, pidocchi, galline, somaro, scarafaggi, mosche e formiche. Queste ultime d’estate: d’inverno, invece, c’è il vento, la pioggia e la neve, ch’entrano ed escono da tutte le parti. Si fermano anche, e la neve copre i letti e chi ci dorme, e la pioggia scava ampie pozze d’acqua a terra. Alora dispongono dei sassi e ci camminano sopra: attraversano a guado la capanna per entrare ed uscire. Il petrolio costa caro, e perciò si alzano quando ci si vede, e si coricano quando non ci si vede più. “Così buio in quelle capanne – dice l’assistente sanitario – che ne visitare uno, una volta, non mi accorsi che aveva l’itterizia. Ed era giallo come un mandarino”. L’assistente sanitario, il medico, cioè, abita a Palestrina, del cui comune Carchitti è frazione. Ne dista dieci chilometri, di cui otto praticabili, perché costituiti d’un tratto della via Casilina: il resto è una strada che somiglia al letto d’un torrente in secca – quando non piove. Quando piove, è un torrente. E il dottore ci va con difficoltà perché Palestrina non ha una macchina da mettergli a disposizione. “Ma scoppiano di salute – egli dice -: i microbisono tanti che s’accoppano tra loro e li lasciano in pace”. Però qualche settimana fa ci fu un caso di difterite, e Carchitti, che possiede un telefono collegato con un cavo a Palestrina, chiese soccorso. Il medico venne quattro giorni dopo, quando riuscì a scovare una macchina e avrebbe trovato morto il malato, se non si fosse  provveduto a trasportarlo, un po’ a dorso d’asino, un po’ col treno, all’ospedale di Roma, dove venne operato d’urgenza. Anche le partorienti da qualche tempo vanno in clinica a Roma. Prima, quand’era venuto il momento, si prendevano l’ombrello e andavano a fare il figlio in campagna. L’ombrello per proteggersi dagli sguardi dei curiosi. Poi chiudevano l’ombrello, si asciugavano le mani con le foglie, si tiravano il bambino in braccio e tornavano in capanna per stendersi un po’ sulla ramazzala e prender fiato. Chi nasce in questo mod o muore subito o vive a lungo. Perciò la urata media della vita a Carchitti è di 80 anni. Il cittadino più vecchio era una bisnonna che è morta pochi giorni fa a novant’anni. Ora l’anziano è un vecchietto lungo, nodoso, dalla voce chioccia. Balla su un piede, ride sempre, e tira pugni allo stomaco di un giovanotto di 18 anni. Ne ha più di 80, ma non ricorda quanti con esattezza. “Sono nato nell’altro secolo – mi dice finalmente, dopo che son riuscito a farmi dare retta e a distoglierlo dal suo pugilato – sotto quell’albero là”. I parti sono molto frequenti a Carchitti, e la popolazione aumenta a vista d’occhio. Saranno un migliaio, adesso. Ma tutti legittimi. L’unico illegittimo è un bambino. La ragazza lavorava sla nel campo d’estate. Un giovinotto passò di là, la vide, la tirò sul margine d’un fosso e fece il suo comodo. Poi continuò la strada. La ragazza tornò al villaggio in pianto, e smise di piangere quando nacque il bambino. Nessuno infierì contro di lei. Io sono riuscito a cogliere la verità solo dopo aver interrogato parecchie persone. Le donne di solito dicono che “il marito” della ragazza è lontano. Non amano che si parli male d’una di loro. Questo è l’unico “scandalo” che si sia mai verificato al villaggio, nonostante la promiscuità delle abitazioni: tre, quattro generazioni, perfino in una stessa capanna; padri, figlie, figli nello stesso letto. E neanche succedono cose che richiedano l’intervento della giustizia. Ci fu, 25 o 30 anni fa, un fatto di sangue: un giovane uccise una giovane. E’ una vecchia storia che molti hanno scordato. Poi fino a oggi, nient’altro che qualche furto di galline, e per opera di estranei del villaggio. Perciò la giustizia, che è rappresentata da una guardia – unica autorità ufficiale nel paese – è disoccupata, e la guardia impiega il suo tempo sui campi o nel bosco.

“E a chi rubiamo? – dicono gli uomini – non abbiamo niente”. “Al massimo, meritano di andare in prigione perché non pagano le tasse. “Io – dice uno – dovrei pagare all’anno 4.750 lire di focatico (imposta sulla famiglia) e altrettante di diritti comunali. Ma non le  pago da due anni. Non le ho. E’ venuto l’usciere per fare il sequestro, ma non ha trovato niente da sequestrare. Se ne è andato e ha detto: tornerò quando avrete qualcosa”.

 

 

Silvano Villani, Anche il prete scappa da Carchitti, “Il Momento”, anno VI, n. 26, giovedì 26 gennaio 1950

 

II

 

Siccome Carchitti è frazione di Palestrina, il nuovo maestro, cui era stata assegnata quella cattedra, la prima volta che si pose in viaggio qualche settimana fa, pensò bene che in primo luogo si trattava di raggiungere Palestrina. E prese in treno delle Ferrovie dello Stato, che lo depose alla stazione di Palestrina, distante dalla cittadina dieci chilometri. Quest’ultimo particolare lo seppe all’arrivo, ma trovò pronto un pullman, che lo portò proprio a Palestrina città, dove però lo informarono che per raggiungere Carchitti gli sarebbe convenuto scendere una stazione prima e farsi a piedi quattro chilometri invece dei dieci e rotti che la separano da Palestrina.

C’era tuttavia modo di rimediare perché, gli dissero, ogni pomeriggio c’è un autobus che va verso Carchitti. Il nuovo maestro attese il pomeriggio e prese l’autobus. Il quale lo depositò sulla via Casilina, all’incrocio con una strada di campagna. E siccome Carchitti non si vedeva ancora, gli spiegarono che si trattava di percorrere la strada di campagna per due chilometri e mezzo, dopodichè l’avrebbe trovata, dietro la prima chiesa.

La strada non si può percorrere che a piedi, o sul dorso di un somaro. Somari non c’erano e il nuovo maestro partì a piedi. Pioveva e perciò fece i due chilometri e mezzo da acrobata, saltando in cima ai sassi, per non sparire in una delle pozze d’acqua. A sera arrivò.

Aveva scelto una brutta giornata. Quando c’è il sole invece, la passeggiata può essere anche piacevole. Si può ammirare la vastità delle proprietà del principe Barberini, la pianura verde smeraldo, le colline,i boschi del monte verde cupo. Tutto quel che si vede in giro appartiene al principe Barberini, all’infuori di un rettangolino di terra, come una pezza bruna cucita di sbieco al tappeto verde sul versante di qua d’una collina. Sono i quattordici ettari di terreno che il principe ha ceduto alla comunità di Carchitti. Ed è l’unica terra lavorata, che si veda in giro: il resto è pascolo.

La scuola è il secondo grande edificio in muratura di Carchitti. L’altro è la chiesa. Poi ci sono venti piccoli edifici, che sono le casette dei più fortunati, dei ricchi di Carchitti.

La scuola è di tipo moderno: è fornita di gabinetti, le aule sono ampie, e c’è anche un cortile per la ricreazione. Possiede gli attacchi per la luce elettrica, che però non servono a niente perché a Carchitti la luce elettrica non arriva. Né sono utilizzati i gabinetti, dato che manca l’acqua. Del resto gli alunni non sanno che farsene, e la prima volta che li videro si meravigliarono grandemente. Il maestro e la maestra ci misero una mattinata per spiegare ai ragazzi e alle ragazze come si dovevano usare i water-closet. Non ne avevano mai visti. La popolazione di Carchitti non usa gabinetti, e restituisce direttamente alla terra i suoi rifiuti. Scavano una buca al momento del bisogno, che poi ricoprono con il terriccio.

Queste cose me le spiegò il maestro durante un intervallo concesso ai ragazzi perché potessero recarsi in campagna a fare i loro bisogni. Poi mi fece visitare l’edificio scolastico. A Carchitti, oltre a quella elementare, funziona una scuola serale per i grandi e insegnanti sono due giovani maestre e un maestro, che percepiscono 11.000 lire a mese. Abitano a Roma, ma siccome le lezioni terminano alle nove di sera, e a quell’ora non si trovano mezzi per tornare in città, devono trascorrere la notte a Carchitti. Le due maestre dormono in uno sgabuzzino attiguo al gabinetto della scuola,il maestro nel gabinetto. Il maestro regolare, quello cioè che fa lezione ai bambini il mattino, viene ogni giorno da Roma, e si prende 23.000 lire al mese. Centosettanta sono gli alunni iscritti, ma 120 frequentano le lezioni. La sera le lezioni per i grandi si svolgono alla luce d’una lampada ad acetilene. Le due maestre e il maestro della scuola serale sono gli unici estranei che osino abitare a Carchitti. Neanche il prete vi trascorre più di qualche mezz’ora: ci viene per la messa, finita la quale se ne torna a Palestrina, dove ha la sua abitazione.

Non ci sono locali né negozi, naturalmente, all’infuori di un banco dove una donna vende i generi del Monopolio: sale e sigarette. La guardia possiede inoltre una cassetta di medicazione, di quelle che si usano al fronte in casi d’emergenza. Tutta la farmacia di Carchitti è in quella cassetta.

Il comune di Palestrina ha tentato di fare qualcosa: ha chiesto quattrini a qualche ente statale per portare la luce elettrica al paese, e ha ottenuto delle assicurazioni. Poi ha comprato dei tubi per portarci l’acqua dal fosso della Doganella. Il consorzio della Doganella dal 1933 sta lavorando alla costruzione d’un acquedotto che dovrebbe fornire acqua a tutti i comuni e frazioni della regione. Senonché in questi ultimi tempi i lavori hanno subito degli arresti: l’acquedotto non è stato quindi compiuto, e l’acqua viene ora scaricata in un fosso a pochi chilometri da Carchitti. E’ a questo fosso che le donne ricorrono per attingerla quando il tempo è secco. Con i tubi acquistati, il comune di Palestrina intendeva far costruire una conduttura provvisoria dal fosso di Carchitti. Ma la cosa non fu messa mai in pratica, per molte ragioni di “praticità”, e i tubi ora giacciono nel cortile della scuola, inutilizzati.

Poca acqua, niente luce, niente medici, ma guerra sì. La guerra trovò la strada per arrivare a Carchitti. Vi si trattenne per quindici giorni, durante i quali la popolazione trovò scampo nei boschi. Incendiò una ventina di capanne, rovinò tutte le altre e passò via. E gli abitanti di Carchitti tentano ora di farsi pagare i danni di guerra. Qualcuno ha già ottenuto il risarcimento, e ha impiegato i quattrini per ricostruirsi la casa, stavolta in muratura e non in legno. Ma la cosa è molto complicata, perché la strada che porta a Carchitti non è praticabile per gli automezzi, e il materiale di costruzione che viene da lontano non ci può essere trasportato in altro modo. La strada apparteneva, come tutto il resto, al principe Barberini che ultimamente l’ha ceduta al comune di Palestrina. Il contratto di cessione però non è stato ancora fatto, ragione per cui il comune non ha affrontato le spese necessarie per migliorarla.

“Ma è la terra, la terra che vogliamo prima di tutto” dicono gli uomini di Carchitti. “Poi l’acqua, la luce e magari anche le case in muratura. Vogliamo terra da lavorare, un po’ di tutta questa bella terra che il principe tiene a pascolo e che darebbe tanto grano”. I prati verdi circondano da ogni parte Carchitti, e conservano un loro brillare per un po’ nella sera anche dopo che il sole è calato. E quando anche quel brillare si spegne, gli uomini cessano di guardare la terra e di fare castelli in aria sull’ipotesi che essa possa un giorno appartenere a loro. Vanno a dormire perché non ci si vede più. Non tutti però; qualcuno dei giovani invece va a terminare la serata alla scuola serale, dove due finestre si sono accese della luce della lampada ad acetilene. Non sognano la terra, essi. Meditano il loro prossimo viaggio, quando andranno ad arruolarsi nei carabinieri e lasceranno Carchitti. Non per sempre forse, ma per parecchi anni sì: questo è certo.

 

Silvano Villani

4 Risposte a “1950: Di rigore l’ombrello in camera da letto”

  1. Ho trovato molto interessante questo suo saggio. Ho curato tre pubblicazioni su Carchitti e sui primi due maestri, Irene Bernasconi e Felice Socciarelli e sono in procinto di pubblicare i loro scritti inediti. Sarei interessato a mettermi in contatto con Lei per avere la possibilità di inserire questo suo saggio nel mio volume. Se mi contatta sull’email sopra inserita gliene sarò grato. Peppino Tomassi.

    1. La ringrazio, mi faccia sapere che cosa posso inviarLe, ho provato a rispondere sulla Sua casella di posta, ma il server mi dice che la mail non è andata a buon fine. Cordiali saluti.

  2. Buonasera. Purtroppo da quel 5 agosto ho atteso invano una sua risposta, ma, come dice Lei, forse avevo inserito male la mia e-mail. Solo oggi sono tornato a leggere sul suo sito e con stupore ho trovato la sua risposta del 6 agosto! Mi dispiace immensamente e mi scuso per questo inconveniente.
    Ora il volume, purtroppo, è stato già stampato, ma ho pensato di fare un piccolo fascicolo da inserire nel volume stesso, rimediando così all’inconveniente.
    Se Lei è d’accordo, potrei prendere il Suo interessantissimo saggio direttamente qui dal blog.
    Se per caso avesse anche qualche foto relativa a quel periodo da poter inserire, ne sarei molto grato.
    Mi piacerebbe anche averLa presente a Carchitti alla presentazione del libro, di cui deve ancora essere stabilita la data, in modo che Lei stesso possa presentare questo Suo saggio.
    Naturalmente sarà mia cura avvisarLa per tempo circa l’evento.
    Per la risposta La prego di utilizzare questa mail: [email protected] – Tel. 069573456 – Cell. 3805273629.
    Nell’attesa Le invio i miei più cordiali saluti.
    Peppino Tomassi

    1. Purtroppo questa mia mail è destinata ad essere sempre SBAGLIATA (ho una… veneranda età).
      La prego di non tenerne conto e correggerla in: [email protected] e questa volta è quella giusta!!!
      Tutto il resto invariato.
      Peppino Tomassi.

I commenti sono chiusi.