1950, Il problema della verità tra parentesi. A proposito di Jean Daniélou

  Domenica 11 marzo 2012, sul Domenicale de “Il Sole24ore” Gianfranco Ravasi ha pubblicato la recensione della biografia di Jean Daniélou scritta da Gianluigi Pasquale (Morcelliana, Brescia). Scrive Ravasi: “Nel 1962 è convocato a Roma da Giovanni XXIII come esperto del Concilio Vaticano II; nel 1969 Paolo VI lo nomina cardinale e Daniélou ingaggia una sfida intellettuale contro la secolarizzazione che allora stava ramificandosi nella società e infiltrandosi subdolamente anche in qualche propaggine della stessa Chiesa. Questo gli costò molte incomprensioni, attacchi e denigrazioni, destinate a far dimenticare lo straordinario lascito culturale e teologico attestato da una imponente bibliografia. Quest’ultima è raccolta in appendice al profilo del cardinale che Gianluigi Pasquale, docente all’Università Lateranense di Roma e al “Marcianum” di Venezia, ha saputo abbozzare in modo esemplare, tenendo conto proprio della complessità della figura di Daniélou dalle tante iridescenze umane, spirituali e culturali”.

Sulla scia di questo rinnovato interesse per Jean Danièlou si ripropone l’articolo che Silvano Villani pubblicò nel 1950 in “Fiera Letteraria”: Il problema della verità tra parentesi. E’ la scrittura ancora un po’ accademica di un giovane appassionato (all’epoca, Villani aveva 27 anni), ma estremamente attenta a cogliere con largo anticipo argomenti che negli anni a venire sarebbero stati di grande attualità.

SilvanoVillani, Il problema della verità tra parentesi, “La Fiera Letteraria”, anno V, n. 18, 30 aprile 1950

E’ ancora possibile il dialogo con i marxisti? Molti giovani pretendono di avere una azione marxista senza avere un pensiero marxista, dice Jean Daniélou

Questi dialoghi che il padre Daniélou instaura con le “personalità” più in vista del secolo non sono nuovi. Non sono nuovi gli interlocutori, non sono nuovi gli argomenti, non sono nuovi i temi. E’ l’incessante dialogo che mai ha avuto pausa nei secoli tra la Chiesa che reclama la parte di Dio, e lo Stato che si sottrae, mascherandosi dietro il comandamento “date a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio”; una frase, come dice Soloviev, “che è stata spesso tirata in ballo per sanzionare un ordine di cose che dà tutto a Cesare e niente a Dio”. Cesare ha sempre avuto l’occhio accorto per trovare nell’eresia il suo tornaconto, al tempo stesso che – vedi il caso – è sempre nella fastosa corte di Cesare che l’eresia ha finito col cercare rifugio, nonostante le sue ostentate preoccupazioni con l’interiorità. Ma, appunto, la corte di Cesare, come tanti salotti borghesi, ama adornarsi di questi personaggi, compromettenti entro ragionevoli limiti, che esercitano la professione di scegliere la libertà, un po’ ingombranti e loquaci, a volte, ma brillanti sempre e sempre disposti a distogliere Cesare dalla sua tristezza col loro amabile spirito.

Diceva qualcuno che il cristiano credente è un cattivo conservatore al tempo stesso che un rivoluzionario poco fidato. Come dire che il cristiano è un cittadino poco ossequioso delle leggi dell’evoluzione storica, che sono quelle della città terrena. L’osservazione riunisce i due punti di vista del reazionario e del rivoluzionario, che, con un certo scandalo, si trovano sempre a dover constatare che il cristiano credente è fino a un certo punto dalla loro parte e poi non più, e poi né a destra né a sinistra, e neanche – per intenderci – al centro. Né si dà un altro punto di vista per considerare questa sua posizione, storicamente. Di lui al massimo si può dire che non è più nella storia, o meglio, che in lui la storia finisce. In realtà il cristiano credente è una rivoluzione perpetua e totale, rispetto non a una determinata forza storica, ma alla totalità delle forze in gioco: egli sollecita la storia alla conclusione, la sollecita a non essere più storia. Viene a rivoluzionare l’equilibrio dei fattori storici per aprirlo a un altro intervento, all’irruzione di una forza storicamente inopinata e ingiustificata. Come dice il Daniélou: “il cristianesimo di oggi è l’erede del cristianesimo di sempre che ha lottato all’interno di tutte le forze storiche per mantenerle subordinate al servizio del destino eterno dell’umanità di cui esso è responsabile davanti a Dio”.

Perché le forze storiche, nate dalla terra, sulla terra ripiegano la loro parabola, e nella caduta si ridurrebbero a inerzia soltanto se al vertice di quella parabola non intervenisse l’esigenza cristiana a fornire il trampolino di lancio per un nuovo balzo: è la speranza cristiana che garantisce un avvenire e dà luogo alla storia. Questo il significato dei “Dialogues” del P. Daniélou: il cittadino della “civitas Dei” penetra nella ben fortificata città terrena e instaura la rivoluzione contro il corpo di leggi con cui essa si regge; fa violenza alle dottrine che la società secolare erige a sua norma e giustificazione in un determinato momento storico e le apre nel punto in cui esse pretendono invece chiudersi e concludersi in una ripetizione infinita il movimento che pure le condiziona.

Questi personaggi influenti, queste dottrine che più sembrano aver preso nella costituzione dell’attuale città terrena, che più di altre per il Daniélou hanno le “promesse dell’avvenire”, sono il marxismo, l’esistenzialismo, il protestantesimo, il giudaismo, l’induismo. Tutte dottrine, rispetto al cattolicesimo, che hanno per fine l’uomo naturale, e che con l’uomo concludono. Tutte fino a un certo punto della loro parabola, favorevoli all’uomo, e a lui nemiche oltre quel punto. Forze storiche, per usare un’immagine di Ireneo, che hanno la funzione del ramo su cui s’inerpica la vite, e che non serve più quando l’uva è matura.

E’ naturalmente al marxismo che è dedicato il primo dialogo e il più ampio, ed è su questo che noi ci soffermeremo.

La vera grande antitesi d’oggi non è socialismo-capitalismo, Oriente-Occidente, ma bensì, sostanzialmente, Comunismo-Chiesa: “O lutteurs êternels, ô frères implacables”, come li definisce Emile Rideau. Poiché bisogna immediatamente aggiungere, nel tentativo di deludere coloro che si fanno scudo della Chiesa e che alle spese delle sue angosce e dei suoi sacrifici sperano di poter ancora molto a lungo fare i loro interessi, bisogna aggiungere che non vi sono in quest’ora della storia due speranze, due cuori che tanto si somiglino, due spiriti tanto tesi a un rinnovamento come quello comunista e quello cristiano. In nessuno il cristiano credente e operante sente vivere così dolorosamente un fratello come nel comunista militante: ma li separa un nulla che è un abisso. Il comunismo si oppone alla Chiesa per negarla come assoluta disperazione; la Chiesa si oppone al comunismo per superarlo e in sé annientarlo come assoluta speranza. Ed è la rossa fiamma della carità che sola può battersi contro l’amor fati, la rinuncia fino al martirio del rivoluzionario comunista. La Chiesa vede nel comunismo il suo più temibile nemico perché esso solo, delle dottrine d’oggi, sa affrontarla sul suo stesso terreno che è quello d’una fede operante. Esso solo le oppone un militante in cui l’ideale si trasforma immediatamente in norma d’azione. E’ per questa ragione che il comunismo esercita un particolare fascino sul cristiano in quanto cristiano proprio, a qualunque classe sociale appartenga, poiché egli non può senza venir a patti con la sua coscienza, restare indifferente davanti a quelle che sono non marxisticamente, le contraddizioni della società borghese, ma le palesi ingiustizie d’un sistema sociale di cui ognuno è responsabile, i vizi, i delitti, la superbia d’un determinato numero di cittadini ben identificabili. “E avendo rotto col mondo capitalista, e desiderando una rivoluzione che instauri un ordine umano nuovo – dice il Daniélou nel tentativo di delineare il dramma spirituale di molti giovani cristiani d’oggi – essi provano una stanchezza crescente di fronte alla impotenza dei vecchi partiti nel fare questa rivoluzione e alla loro incapacità di districarsi dai compromessi e dagli scrupoli che li paralizzano. Solo il partito comunista pare loro rappresentare attualmente una forza sufficientemente rivoluzionaria per fare la trasformazione cui aspirano. Indubbiamente la visione marxista delle cose è lungi dal soddisfarli. Essi sono spiritualisti, il marxismo è materialista. Inoltre sono abbastanza lucidi per capire i pericoli d’asservimento che il marxismo porta con sé. Ma la preoccupazione dell’efficacia politica in essi prevale su quella della testimonianza che si deve rendere alla verità. Fra la tensione spiritualismo-materialismo e la tensione reazione-rivoluzione, è la seconda che pare loro più importante. Stimano più urgente lottare contro la reazione che lottare contro il materialismo… Il tratto caratteristico di questi giovani è di mettere in qualche modo il problema della verità tra parentesi… pretendono avere un’azione marxista senza avere un pensiero marxista”. L’adesione al partito, date queste premesse, pare quasi un obbligo morale. E sta qui proprio il grandissimo pericolo: come sopra si osservava, Cesare sa maneggiare con straordinaria abilità le Scritture e riesce a trovare sempre il versetto che santifica la sua spada. Il comunismo fa appello alla coerenza spirituale del credente, alla sua religiosa interpretazione della vita; ossia a ciò che, da un punto di vista marxista, non è altro che “sovrastruttura”. L’essenza dell’uomo non sta qui, secondo i marxisti. Ma, appunto, non si tratta di persuadere dei marxisti.

A chiarire l’equivoco è proprio Marx che ci viene in aiuto: “L’uomo non effettua soltanto una mutazione di forma nell’ordine naturale (che qui possiamo sostituire con “ordine sociale”), ma attua insieme a esso il suo fine conosciuto, da lui, fine che determina come legge il modo del suo agire… Oltre allo sforzo degli organi che lavorano, si richiede, per tutta la durata del lavoro, la volontà diretta al fine” (Capitale, IX). Come dire che non si tratta di distruggere prima un ordine sociale, e di costituirne uno nuovo dopo; il nuovo si costituisce mentre il vecchio ordine va in rovina, anzi questo vecchio cede proprio perché il nuovo si va formando. La verità non può venir messa tra parentesi senz’essere smentita: “essi non si rendono conto – commenta il Daniélou – che è precisamente l’essenza del marxismo di mettere la verità tra parentesi, e di fare dell’efficacia temporale la sola realtà”.

La ragione principale va dall’equivoco ricercato nel loro disagio spirituale: “presso molti di essi – riconosce francamente il Daniélou – v’è un doloroso scandalo davanti alla timidezza e alla mancanza d’immaginazione costruttiva del mondo cristiano, e noi saremo gli ultimi a biasimarli di ciò”. E più esplicitamente prosegue: “che siano dunque sicuri, questi giovani cristiani rivoluzionari, che è nel senso profondo dello spirito della Chiesa ch’essi vanno, quando vogliono una rivoluzione per un ordine sociale e un ordine umano migliori”.

In realtà, l’intellettualismo di Marx non differisce punto da quello di Hegel. Ambedue giustificano una realtà di fatto, che per l’uno è lo stato prussiano e per l’altro l’imminente rivoluzione. Ambedue fanno, come si dice, di necessità, virtù. E siamo al punto. La critica che Ivanov Razumiik rivolgeva a suo tempo contro i marxisti intransigenti, di far valere una legge obbiettiva, sociologica, come norma soggettiva d’azione personale, è sempre valida e può essere estesa a tutto il marxismo. Non ci soffermeremo a rilevare ancora l’insufficienza della visione del mondo proposta dal materialismo dialettico. La contraddizione che mina il sistema è già nell’espressione stessa “materialismo dialettico”. Che cos’è la materia? “L’unica proprietà della materia – dice Lenin – al cui riconoscimento è legato il materialismo filosofico, è quella di esistere al di fuori della nostra coscienza, oggettivamente” (Materialismo e empiriocriticismo). Che cos’è la nostra coscienza allora? “E’ una certa forma di moto della materia”, o come dice il Mitin “una proprietà della materia altamente organizzata”. Definizione, conclude il Wetter (Materialismo dialettico sovietico) che “riesce un idem per idem, nel quale il primo viene definito dal secondo, e il secondo dal primo”. Rileveremo invece l’analoga petizione di principio, dal punto di vista logico, che si verifica nel ragionamento del marxista che dice in sostanza: “Quando si studi la storia secondo il metodo del materialismo dialettico – che è l’unico metodo veramente razionale – si conclude che a un certo punto della evoluzione sociale, la rivoluzione appare inevitabile. Se i calcoli sono esatti, noi siamo a questo punto. Dunque bisogna fare la rivoluzione”. Essere e dovere, verità e giustizia: fu appunto sul modo di conciliare queste due diverse categorie che si svolse in Russia la polemica tra populisti e marxisti. Filosoficamente, esse non furono mai conciliate. I marxisti conclusero: “Per noi una cosa sola è importante: che il processo sociale è necessario; se esso sia giusto o no, la domanda è assurda, nessuno certo si  occupa della questione se sia giusto o meno il fulmine che ha ucciso l’uomo” (Wetter, op. cit., pag. 83). Ma è ben giusto che l’uomo sia libero, ed è perché nel marxismo vedono la sua liberazione che i marxisti lo sostengono. Fortunata coincidenza dunque che un processo necessario porti alla liberazione dell’uomo?

E’ sotto la prospettiva morale che il marxismo si rivela menzogna, e a un tempo disperazione. Libertà è identificarsi con la necessità della storia, col suo movimento: l’uomo è libero solo di fare la rivoluzione, morale è solo ciò “che lavora nel senso della forze storiche”. Ed è lo stesso intellettualismo, da Socrate al conservatore e reazionario Hegel, al rivoluzionario Marx: la virtù è il sapere. Basta sapere quel è la classe ascendente, per poter unirsi ad essa ed essere liberi e virtuosi.

Ma come l’uomo non è solo natura, né solo tecnica, così non è solo pensiero storico, non si risolve tutto nel movimento della “classe ascendente”. “Ed è qui – dice il Daniélou – che troviamo faccia a faccia il comunista e il cristiano. Per il comunista, la libertà è andare nel senso della forza storica. Essa è la verità. Tutto ciò che non serve questa forza dev’essere spezzato. E tutti gli altri valori sono subordinati a essa … Per il cristiano, la legge della forza non è mai una giustificazione, il fatto non crea il diritto. Egli non è antisociale … né reazionario. Ma se essere rivoluzionario è giustificare tutto ciò che esige il trionfo della collettività, allora il cristiano rifiuta di essere un rivoluzionario, o meglio, è lui il vero rivoluzionario, la permanente protesta contro l’asservimento della persona alla collettività”. La società futura com’è vista dal marxismo è una società senza contraddizioni, una società logicamente e razionalmente ordinata – non una società perfetta. E’ il regno della giustizia, del rigore, non della verità. E’ appunto la città terrena, chiusa a ogni ulteriore intervento, in cui -come dice Agostino – “si cerca la pace attraverso la guerra”. Non vi è più alienazione, ma solo perché non vi è più nessuno che possa sentirsi alienato: l’uomo è tutto risolto in essere sociale. E se la sua essenza è, marxisticamente, sociale, indubbiamente qui la storia ha termine. Non si capisce perché non è finita prima: in tutti i tipi passati di società, con lo stesso sforzo d’immaginazione, l’uomo avrebbe potuto risolversi in essere sociale, e sentirsi libero. Così invece non accade: la libertà non è la necessità, né la virtù è il sapere. Non è in nome d’uno sterile individualismo che il cristiano rivendica la persona contro la collettività, ma “perché egli è impegnato in un’altra storia. E’ là il fondo della cosa. E’ che per lui la realtà economica non è che sovrastruttura, l’epifenomeno, mentre la realtà tout court, l’infrastruttura, è l’edificazione del Regno di Dio”.

E veniamo così alla parte forse più importante del dialogo impegnato dal Daniélou col marxismo; quella riguardante i rapporti tra cristianesimo e storia. Il rimprovero che si fa al cristiano d’essere un evaso non è di ieri. Noi lo troviamo fin dalle origini del cristianesimo. Ma rispondeva Tertulliano, nell’Apologetico: “Si dice che noi siamo inutili per gli affari. Come potremmo esserlo, noi che viviamo con voi? Con voi mangiamo, con voi serviamo come soldati, lavoriamo la terra, facciamo il commercio. Poiché noi non siamo dei brahmani o dei gimnosofisti dell’India, abitanti delle foreste ed esiliati dalla vita”.

La posizione del cristiano non è mai facile, né egli aspira a renderla tale, perché partecipa di due mondi coesistenti e al tempo stesso successivi, della storia profana e della storia sacra, della città terrena e della città divina, egli è attore nel prologo in terra e nell’epilogo in cielo. Egli sollecita continuamente la storia in una direzione che non è storica, e che sotto una determinata prospettiva può apparire anche antistorica, in una direzione verticale, se così si può dire, e perpendicolare al piano orizzontale su cui quella procede. La storia sacra non coincide con la storia profana. Ma non è neanche estranea a essa. “L’essenza del messaggio cristiano concerne meno delle dottrine nel senso astratto della parola che una testimonianza resa a degli avvenimenti a delle opere di Dio nella Storia: l’alleanza con Abramo, la nascita e la resurrezione di Gesù Cristo, la Pentecoste. L’Incarnazione è un avvenimento irrevocabile, unico nella Storia, e i ritorni ciclici come li concepiva il paganesimo non sono più possibili. C’è, nel senso completo della parola, un passato e un avvenire”. E’ accaduto un fatto nuovo che non si verificherà mai più un’altra volta. Ma con ciò non è interrotta la continuità storica: vi è distinzione, ma anche unità tra i due Testamenti; fanno ambedue parte d’un medesimo piano. Ma mentre nell’Antico il Regno è annunciato e preparato, prefigurato, nel Nuovo Testamento è presente in mistero. La storia è profezia: gli avvenimenti e le istituzioni di un’epoca sono gli abbozzi di quelli dell’epoca successiva. Allo stesso modo, il secolo presente è figurazione del Regno che sarà manifestato nel mondo futuro e che esso contiene in mistero. Ma come nell’Antico Testamento il Popolo Eletto è figura del Cristo ch’esso porta in sé, e deve venir distrutto perché la nuova realtà viva, così il mondo presente è figura del regno futuro e dovrà “passare non nel suo essere, ma nella sua forma, per far posto al secolo futuro che si edifica quaggiù nell’operazione invisibile della carità e che sarà manifestato all’ultimo giorno. Concepire il secolo futuro come una eternizzazione dei risultati visibili del mondo terreno è cadere nell’errore dei Giudei, è rifiutare il compimento che ha luogo con la morte del grano”.

Il cristianesimo concepisce la storia come progresso. Ma non come progresso indefinito; poiché esso si pone al tempo stesso anche come termine di esso. La storia cristiana è escatologica: la fine della storia è giunta con l’Incarnazione. Nessun progresso, a rigore, è più possibile, poiché Cristo è presente, ed è il di là d’ogni progresso. Ma presente in sacramento: con ciò non si vuol dire quindi, che la storia sia terminata. Questa è la posizione barthiana che costituisce un parallelo post-cristiano alla gnosi. “La Storia presente ha un contenuto reale, che è il crescere del Corpo mistico sotto l’azione di Cristo. Ciò che è acquisito è l’unione della natura umana e della natura divina in Gesù Cristo. Ciò che è atteso escatologicamente è la manifestazione della vittoria del Cristo … Ciò che si compie presentemente è l’edificazione invisibile ma sovranamente reale per mezzo della carità del corpo incorruttibile del Cristo che sarà manifestato nell’ultimo giorno”.

Dovrebbero apparire chiari ora i rapporti tra cristianesimo e storia: d’una parte il cristianesimo  nella storia, è un avvenimento storico, d’altra parte la storia profana è contenuta nella storia sacra, e – per usare ancora l’immagine di Ireneo – il ramo su cui s’arrampica la vite: ciò che conta è l’uva matura, non il ramo che la regge.

Il cristianesimo s’incarna realmente della storia: “come il Cristo è stato l’uomo d’un paese, d’un’epoca, d’una civiltà determinata, così è della Chiesa. Essa s’incarna nelle civiltà successive. E queste incarnazioni partecipano della caducità che è propria di queste civiltà. La Chiesa si compromette nel mondo, deve compromettersi: l’Incarnazione è un dovere. Coloro che vorrebbero un cristianesimo estraneo alla storia, d’una purezza intemporale, s‘ingannano sulla sua essenza”.

Marx ha ragione quando vede “nel cristianesimo originario un riflesso delle condizioni economiche della Galilea, in quello bizantino un’immagine della teocrazia degli imperatori di Costantinopoli, in quello della Riforma l’espressione dell’espansione economica del Rinascimento…”. Ma s’inganna quando crede di dover ridurre tutto il cristianesimo a queste cristianità; sotto queste “sovrastrutture” egli non vede la Chiesa incorruttibile e permanente. Poiché accanto al dovere d’incarnarsi, la Chiesa ne ha uno uguale di disimpegnarsi; il cristianesimo non si risolve mai in alcuna delle forme di cultura in cui s’incarna, e coloro che “vogliono mantenerlo rigidamente nelle sue incarnazioni passate e nelle forme in cui s’è incrostato per abitudini secolari commettono lo stesso peccato del giudaismo che ha rifiutato di morire per risorgere”.

La Chiesa muore per risorgere nella nuova forma, nella nuova civiltà di cui, come nella passata, è responsabile di fronte a Dio. Qual è dunque la funzione della storia profana rispetto a essa? La storia profana in sé non è progresso ma solo un processo di accumulazione. Per il marxismo, invece, il progresso è proprio questa accumulazione di tecniche con cui l’uomo estende il suo dominio sulla natura. In realtà esso è l’ultima tecnica con cui viene posta sotto controllo questa estrema zona della natura che è l’attività dell’uomo nella storia. In sé la tecnica non è né bene né male: “condannare la tecnica – ha scritto Gabriel Marcel – è pronunciare delle parole vuole di senso”. Dal punto di vista morale, la tecnica è neutra. Diventa male quando si erige a sola norma d’azione, a sola verità, come, appunto, nel marxismo, che al tempo stesso in cui vuole interpretare la storia, la conclude fissando come legge quel che è il suo metodo. In questo processo “lo spirito umano non ritrova che se stesso”. La contraddizione della città terrena sta appunto nel “non poter cercare la pace che attraverso la guerra”. Rispetto alla storia ha la funzione di offrire la materia che essa trasfigura con la grazia. “Preso per sé, il progresso umano è ambiguo…” Il suo compito è di portare l’umanità a una maturità più perfetta, allo scopo di fornire alla grazia un soggetto più ricco. E in questo senso, lavorare per il progresso umano rientra nel piano provvidenziale e affretta il crescere della Chiesa, che ha bisogno dei succhi del ramo che la porta per raggiungere la sua pienezza. Ciò definisce la situazione del cristiano in rapporto all’ordine temporale. Non sarà un deprezzarlo, poiché questo ordine ha un compito nel piano provvidenziale. Ma eviterà anche di maggiorarlo, poiché questo compito rimane interamente subordinato.

Silvano Villani