Tettarelle

Vuoto, solo questo termine viene alla mente quando ripenso a quegli anni; proprio nel momento di crescita maggiore, il trapasso tra pubertà ed età adulta, dove sentimenti ed emozioni  dovrebbero essere scalpitanti e irrazionali, in cuor mio mi spegnevo.

Passavo ore con  al mio stereo cercando alla radio qualche canzone che mi permettesse di sognare e creare la mia di realtà. Mi allontanavo così dal mondo a me scomodo; era difficile rapportarmi con i  miei coetanei, come lo era per loro avvicinarsi a me.

Silvano, mio nonno, anche lui viveva un momento critico, s’innamorava di nuovo.

Faceva spesso visita a Dora che abitava a Trastevere, in una casa a due piani, al piano inferiore conobbe Mia, affascinante ragazza, donna, dell’età di mia madre.

Mia aveva ripreso a studiare e mio nonno si offrì di darle il suo aiuto.

Dolce, un po’ misantropo essere, sarebbe stato impossibile non innamorarsi; mi piaceva Mia, assecondava ogni mia strampalata idea d’arte.

Avevo all’incirca 12 o 13 anni,  un giorno passeggiando con lei e con mia madre, dopo uno dei tanti brevi pranzi a casa di mio nonno, passando di fronte alle vetrine, in particolare a quella di una farmacia, nell’osservare prodotti per bambini mi venne l’assurda idea di costruire un lampadario fatto di tettarelle per neonati. Ricordo d’essere stata colpita dalla plastica trasparente con la quale erano state fatte e immaginavo il tipo d’effetto che avrebbero creato se sottoposte alla luce di una o più lampadine; esposi la mia idea a Mia che si offrì di compramene qualcuna  e poi di farmene trovare altre alla prossima visita. Mia madre si infuriò, si rigirò verso la mia benefattrice mortificandola e verso di me per convincermi che erano stronzate, soldi buttati inutilmente.

Povera Mia, all’epoca non capivo, come potevo, al di là di quel che mi raccontava mia madre c’erano alcune cose che non potevo sentire a pelle o immedesimarmi. Mio nonno era circondato solo da ex; di amici al maschile ne aveva uno, il suo avvocato, o meglio quello di mia madre, sposato con una bellissima donna d’origine francese, avevano un figlio: durante la mia infanzia, quando vivevo con mio nonno era l’unico ragazzino con cui giocavo. Anche l’avvocato era sadico e un po’ perverso, ma  molto più stronzo di mio nonno, loro due insieme era quel che di peggio potevi trovare: severi e intolleranti verso noi bambini, a prescindere.  Paladino dei ragazzi arrestati in terre straniere, come la Turchia o la Tailandia , ereditò proprio dalla madre di uno di questi ragazzi tossicodipendenti a cui aveva salvato la vita, una patrimonio milionario. Si ruppe anche questa amicizia a discapito di Mia, che si ritrovò  senza vaccino a dover affrontare gli strani ménage di mio nonno.

Erano sempre lì le uniche rimaste, le sole amiche,  a metter bocca, a prendersi a gomitate per accaparrarsi i favori di Silvano, a competere per il titolo di salvatrice della povera figlioletta – mia madre.  Lui stava nel mezzo, con Mia al suo fianco, lei senza un briciolo d’ armatura o una rubrica con le istruzioni, sola e spaesata, piena di input.  Una situazione più che drammatica le si presentava: non solo Silvano, l’ uomo di cui si era innamorata, era  molto più grande di lei,  ma aveva un  background non facile.

Anche se  preda delle continue beccate  e delle terrificanti,  ingegnose  strategie  delle ex che si alternavano fra doppie facce e pugnalate alle spalle, tirò dritto per la sua strada senza scappare, fedele e paziente compagna di vita.

Vega Villani