Come ogni sera

di Pia Di Marco –

Come ogni sera, da tempi immemorabili, lungo l’Occidente incendiato, la carovana dei ciechi si mette in marcia: l’uno con la mano sulla spalla dell’altro, innalzano un lamento che satura l’aria. Uno dei ciechi alza le orbite vuote al cielo profondo, la bocca si contrae in un urlo angoscioso che ricade sui disperati. Intorno, vuoto e silenzio, fino ai lontani orizzonti dove si perde lo scintillio dei miraggi.

Nessuno ha udito. Nessuno mai udrà. Cammina cammina, la sabbia s’avvolge tiepida alle caviglie come un amplesso che inviti al riposo, ma il riposo è una chimera: i piedi emergono scarni, levigati, la marcia continua. “Come ogni sera, come ogni sera” sibila il demone negli animi bui.

Ora i ciechi girano in cerchio, il primo raggiunge l’ultimo con le mani che brancolano, l’afferra – è un grido di bestia atterrita – il cerchio si serra, la rissa scoppia furibonda: i ciechi ansimano, rantolano tra nugoli di sabbia polverosa; poi, la massa si sgroviglia: ad uno ad uno, gli uomini riprendono il cammino in un’altra direzione, una qualunque, come ogni sera.

E’ l’8 dicembre 1945, uno studente, Silvano Villani, pubblica sul giornale dell’Università Federico II di Napoli questo breve scritto intitolato, appunto, Come ogni sera (“Università”, II, 6). Uno scritto che colpisce per il carattere surreale: non è dato sapere il luogo, il tempo in cui si svolge l’azione, inoltre, lo scenario del deserto sarebbe più coerente in un paesaggio africano che non nell’Occidente “incendiato”. E, tuttavia, proprio questa indicazione, “l’Occidente incendiato”, suggerisce l’immagine dell’Italia e dell’Europa al volgere del 1945. Un’Italia dilaniata, a partire dal 25 aprile 1943, all’indomani delle dimissioni di Mussolini, dai fronti opposti delle organizzazioni partigiane e della repubblica di Salò; un’Italia della resistenza passiva, come l’ha definita Norberto Bobbio (“La Stampa”, 4 settembre 1993), ove tanti militari rifiutano di combattere accanto ai tedeschi – dopo l’8 settembre verranno deportati nei campi di concentramento – e gli operai torinesi proclamano lo sciopero (18 aprile ’45); un’Italia divisa tra collaborazionisti consapevoli e obbligati, tra disimpegnati, doppiogiochisti o costretti a scindersi in una parte pubblica, obbediente, e in una privata, disobbediente.

Al dettagliato elenco di Bobbio si potrebbero aggiungere tutti quegli italiani delle campagne, dei paeselli che hanno sopportato i podestà come avevano sopportato i signori feudali – quasi che il tempo riproponesse, immutabile, ciclico, le stesse angherie, la stessa separatezza “genetica” tra chi comanda e chi è comandato. Le foglie, d’autunno sono gialle allo stesso modo e tra un’armatura di ferro e una camicia nera è superfluo distinguere. Questa gente fa la fame, ha paura, aspetta che il Potere arrivi sull’uscio di casa nelle vesti del postino con la cartolina d’arruolamento o con la notizia d’un figlio caduto al fronte – e qualche madre di ritorno dalla sorgente dov’è andata a “cogliere l’acqua” sviene, e l’acqua si disperde per il vico pavimentato di sassi. Talvolta, nelle campagne, succede che i tedeschi sgozzino intere mandrie, rabbiosi come lupi per non aver trovato l’ebreo o il partigiano nascosto, e facciano razzia del cavallo più bello, regalo di uno sposo alla sua sposa. La distanza che corre tra la Storia e la vita di questi italiani è palpabile negli scatti di Robert Capa al seguito delle truppe Alleate nell’estate del ’43: il contadino nei pressi di Troina che indica a un ufficiale americano la direzione del convoglio tedesco sembra partorito dalle viscere della terra, nato da denti del drago, il viso arso come la pianura che ha alle spalle. L’ufficiale l’ascolta con un misto di curiosità e incredulità, come avesse davanti un animale parlante.

I ciechi brancolanti del breve componimento di Villani sono i popoli che in questi anni tragici hanno incendiato l’Occidente facendone un deserto del nulla: il 30 aprile 1945, il primo dei ciechi dell’interminabile carovana, Adolf Hitler, si suicida. Otto giorni dopo, la Germania si arrende: è la fine della guerra in Europa. Ma la carovana ancora s’aggira: le bombe di Hiroshima e di Nagasaki vengono lanciate d’estate, precisamente il 6 e il 9 agosto. Il 2 settembre è proclamata la fine della seconda guerra mondiale: la marcia dei ciechi placati prosegue lungo le dune, come ogni sera.

 

Una risposta a “Come ogni sera”

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