1960 – Francis Jeanson arrestato a Ginevra

Il filosofo francese Francis Jeanson (1922- 2009) sostenitore della guerra d’indipendenza dell’Algeria, studioso e amico di Albert Camus, oltre che di Sartre sul quale ha scritto numerosi studi, ha collaborato per anni alla rivista “Les Temps Modernes”.   negli anni ’50 fonda una rete di sostegno al Fronte di liberazione nazionale algerino, per questo viene condannato in contumacia a dieci anni di carcere nel 1960, ma è amnistiato sei anni piu’ tardi. Nel 1966 è incaricato da André Malraux di costituire la Casa della cultura di Chalon-sur-Saône (1967-1971). Nel 1992 diventa presidente dell’Association Sarajevo, a sostegno del popolo bosniaco e si candida nella lista “L’Europe commence à Sarajevo” del professor Léon Schwartzenberg per le elezioni europee del 1994.

Jeanson è arrestato il 6 ottobre 1960 in casa di Silvano Villani, dove si è rifugiato. La polizia ginevrina arresta anche il giornalista, che viene rilasciato dopo poche ore e nella notte fra il 7 e l’8 ottobre invia al suo giornale, il “Corriere della Sera”,il resoconto di quel che è accaduto. Ne viene fuori il ritratto vivido del filosofo, le sue inquietudini, il tratto adolescenziale del suo carattere che gli fa prendere tutto molto seriamente. I giovani si assumano le proprie responsabilità – dice Jeanson rivolgendosi soprattutto ai ragazzi francesi affinché prendano  posizione contro il colonialismo – senza attribuire il peso e il senso di ogni loro gesto all’ambiente, alla famiglia, alla società. Un invito valido per la gioventù di ogni tempo e paese.

Silvano Villani, Francis Jeanson arrestato a Ginevra,  Corriere della Sera, sabato 8 ottobre 1960

Ginevra, 7 ottobre, notte.

Non abbiamo avuto molta fortuna né io né lui, il prof. Francis Jeanson che la polizia francese ricerca da tanto tempo e che quella svizzera è riuscita ad acciuffare ieri sera a casa mia. L’intervista, o meglio, la conversazione, lo scambio di idee, forse il battesimo di un’amicizia, avrebbe dovuto aver luogo ieri sera a casa mia intorno a una bottiglia di buon whisky. E una bottiglia di whisky aveva, appunto, sotto il braccio Jeanson rientrando al n. 7 di Chemin de Roches dove io abito, ieri verso e 17.30: ma un quarto d’ora dopo ci siamo trovati tutti quanti ospiti in camerette separate all’ultimo piano del Palazzo di Giustizia di Bourg-de-Four dove la brigata politica della polizia federale e i suoi clienti sono, diciamo, alloggiati in casi di emergenza.

Il primo incontro

Non ho avuto fortuna io perché da un pezzo aspettavo l’occasione d’incontrare Jeanson e di discorrere con lui, e di conoscerlo; non ha avuto fortuna lui perché la volta che questa occasione si è presentata, si sono presentati anche tre efficienti funzionari della brigata politica di Berna: il dialogo è stato interrotto, e Jeanson, per la prima volta, penso, in vita sua, è ora sotto chiave. Volevo presentare il personaggio e non riferire le sue dichiarazioni politiche. Raté, come dicono i francesi: ho mancato il colpo.

Jeanson telefonò a casa mia ieri verso le 12.30. E’ utile che premetta che lo avevo già incontrato prima: sta nella deposizione che ho firmato a Bourg-de-Four e soprattutto tengo a non scostarmi da quanto è detto in essa. Incontrai, dunque, Jeanson per la prima volta un paio d’anni fa a Parigi con altri amici in un bistrò: si discusse insieme di questioni morali e un po’ anche di geologia. Non so se egli se lo ricordi: non ne abbiamo parlato quando ci siamo rivisti qua, ma penso che non mi avesse dimenticato, poiché non dubitò di telefonarmi quando un amico comune gli passò il mio numero.

Questo amico comune gli passò il mio numero di telefono alcune settimane fa, quando Jeanson a Ginevra concesse un’intervista al corrispondente d’un giornale della Svizzera tedesca. Mi telefonò, venne da me una sera dopo cena per il caffé, si parò di ragazze, di matrimonio, dell’educazione dei figli: se ne andò verso le 23 perché non voleva perdere non so se un treno, un tram o un autobus. Non gli chiesi da dove fosse venuto né dove fosse diretto. Gli spiegai solo che sarebbe stato molto gentile da parte sua se avesse trovato il modo, in un’altra occasione, di trattenersi con me un po’ più a lungo, e aggiunsi che il piacere della sua compagnia non doveva farmi dimenticare i miei compiti di giornalista.

Ma qualcosa di lui comunque mi pareva di aver già capito. Jeanson è un uomo che ha l’aspetto d’un ragazzo sempre attento a quello che si dice e si fa, in tal modo interessato a quello che il suo interlocutore sostiene da costringere quest’ultimo a un’estrema attenzione: non si può con lui parlare vagamente, superficialmente di questo o di quello, come non lo si può fare appunto con un ragazzo – ce n’è in giro – il quale, le volte che accetta di parlare e di scambiare idee con qualcuno, idee e cose pensate hanno da essere, e non chiacchiere per far passare il tempo. Io ho avuto così un professore molto tempo fa, di lettere, e non di filosofia come Jeanson, talmente occupato a stare a sentire, a capire i suoi allievi, che le ore di lezione trascorrevano in discussioni perfino su argomenti personali: e i libri di testo ci se li andava a leggere a casa come romanzi rivelatori, avventurose scoperte, stimolati dall’ambizione di poter con lui continuare ad argomentare su un tema in comune. Professore e allievi diventano così una piccola comunità, e l’allievo ha l’impressione – che non è falsa, che non è un’illusione – di dare al maestro tanto quasi quanto riceve.

Jeanson è uscito, io penso, da un’aula di liceo come questa per gettare il dubbio nella coscienza della Francia. Non frequente, ma non inverosimile evoluzione nella coscienza di un insegnante. Di ciò comunque non si parlò né allora né ieri. Ieri dunque, come ho detto, Jeanson telefonò verso le 12.30.

Monsieur Vincent

Io non ero a casa, ma la domestica era avvertita: “Quando un signor Vincent telefona (Vincent era il nome convenzionale che mi aveva dato) lo faccia salire subito” le avevo detto. Salì e mi attese. Non era solo: con lui mi attendeva Cécile Ragagnon, che è stata famosa a Parigi qualche anno fa come cantante di operetta, e che ora penso è una delle sue principali collaboratrici: d’altronde al processo che si è svolto a Parigi nei giorni scorsi ella è stata condannata a dieci anni di carcere come Jeanson. Erano – tale fu la mia impressione, esatta d’altronde – stremati.

Si fece colazione insieme. Cécile parlò poco: erano, come dovevano dirmi poi, da due giorni e due notti in fuga, e avevano dormito in tutto non più di tre ore. Jeanson aveva i tratti tirati; e tuttavia la sua indole naturalmente gaia e soprattutto la sua attenzione costantemente all’erta riuscirono a farmi dimenticare il suo aspetto affaticato. Jeanson è un uomo di media statura, forse perfino un po’ al di sotto della media, sottile, bruno di capelli, gli occhi blu con smaglianti pagliette grigie sparse nell’iride. Aveva l’aspetto affaticato: in realtà – e anche questo ho saputo dopo, e da Cécile, mentre egli era assente – è molto malato: malato di petto, ai polmoni, malato di nervi, malato allo stomaco, per cui riesce a digerire solo alcuni cibi, vino rosso e whisky: perfettamente, pare, quest’ultimo. Si parlò di divorzio, dei figli nati dal divorzio, poiché Jeanson è figlio di genitori divorziati.

E le sue idee in proposito sono abbastanza interessanti. Esiste troppa pietà, egli dice, troppa e pericolosa disposizione a giustificare i figli dei genitori divorziati, la società – non sempre le famiglie, ma sempre la società – è troppo incline a rovesciare sull’ambiente, sui genitori, su altri insomma, le responsabilità della condotta dei giovani. I giovani hanno bisogno di soffrire, egli dice, hanno bisogno di individuare rapidamente i loro obiettivi: figli o no di genitori divorziati, i giovani non devono essere stimolati ad attribuire ad altri la responsabilità della propria condotta: e c’è troppa stampa, troppa propaganda, troppa opinione pubblica, infine, che si occupa di creare intorno a loro uno spesso nido d’ovatta, dove le loro azioni, le loro idee, la loro vita, infine, che si perde, alienata, distaccata dalla sua sorgente: ad altri moventi e non ai loro imputata.

E qui c’è il nesso con la massima ambizione di Jeanson, figlio di genitori divorziati, che ha recuperato adulto il padre dopo una lunga infanzia trascorsa in una ostilità da altri alimentata contro di lui, la massima ambizione, dicevo, di risvegliare – questo è il suo programma – la gauche francese, figlia nella sua opinione, anch’essa di un divorzio, ed esonerata dalle proprie responsabilità dalla forza delle circostanze. Ma di ciò – degli aspetti politici della questione – si parlò poco. Si parlò invece della moglie – dalla quale Jeanson è separato da tre anni – che vive a Parigi con la madre e col figlio, un ragazzo di dieci anni che frequenta la scuola e che ogni giorno deve affrontare i compagni i quali non dimenticano mai che egli è infine il figlio del prof. Jeanson: “Ha resistito per settimane e per mesi alle allusioni e al peggio: finché un giorno ha menato. Le ha prese: ma da allora nessuno è tornato più sull’argomento.

Telefonata fatale

Si è parlato infine d’una vecchia domestica bretone che è da anni in casa Jeanson e che egli, pur disponendo ormai di assai poco denaro, deve continuare a tenere al proprio, o meglio, al servizio della propria famiglia: perché non si può licenziare una vecchia domestica affezionata solo perché non si è sicuri di poterle corrispondere ogni mese il salario pattuito. Si evitò ogni argomento compromettente a colazione, poiché la cameriera andava e veniva e non era opportuno che lei fosse messa al corrente della identità di Monsieur Vincent. Verso le 15 Jeanson avvertì che si doveva aspettare una telefonata diretta a Cécile: e infatti arrivò pochi minuti dopo.

Ed è stata probabilmente quella che l’ha perduto. Molto probabilmente infatti il telefono della persona all’altro capo del filo era controllato ed è stato così facile identificare il mio numero. Jeanson disse che doveva uscire per certe sue commissioni e che ci si sarebbe rivisti più tardi e che si avrebbe avuto l’occasione finalmente di parlare un po’ più a lungo e in tranquillità.

Cécile chiese di stendersi sul letto. Io avevo altre cose da fare e mi ritirai in un’altra stanza. Verso le 17 arrivò a casa mia (e probabilmente era la stessa persona che aveva telefonato un paio d’ore prima) un giovane di Friburgo. Jeanson non rientrava, e io avevo un appuntamento alle 18. Dissi dunque a Cécile e al giovane di Friburgo che mi dovevo assentare per qualche minuto: mi attendessero. Scesi e al portone sulla strada tre signori mi chiesero i documenti. Mostrarono immediatamente, prima che io estraessi le mie carte, la tessera della polizia. Esaminarono i miei documenti e conclusero che non ero l’uomo che cercavano: stavano – tale fu la mia impressione – per andarsene quando proprio in quel preciso momento, Jeanson rientrò con la bottiglia sotto il braccio. Qualche minuto dopo eravamo tutti – Jeanson, Cécile, il giovane di Friburgo e io – a Bourg-de-Four.

Niente estradizione

Venne assegnata a ciascuno di noi una stanzetta; fummo interrogati separatamente, e tengo a precisare, per quanto mi riguarda, di essere stato trattato con  perfetta cortesia e ogni riguardo.

La mia permanenza a Bour-de-Four è durata tre ore: quanto a Jeanson, a Cécile e al giovane di Friburgo, credo che essi siano ancora là mentre telefono. E credo che lo siano molte altre persone: poiché una vasta operazione di polizia decisa dal Governo di Berna è in corso da un paio di giorni almeno. L’operazione è tuttora in corso. Mentre mi trovavo a Bourg-de-Four due altri agenti di polizia – l’ho saputo in seguito – sono venuti a bussare alla mia porta e alla domestica hanno chiesto se attendessi qualcuno in casa mia nella serata. Evidentemente né lei né io sapevamo di dover attendere qualcun altro. Nessuno d’altronde è venuto. Ma per tutta la notte nella strada dove abito s’è dato gran movimento, automobili posteggiate negli angoli, andare e venire di signori e anche di signore che si davano l’aria di portare a spasso il cane alle 4 e alle 5 del mattino, passi sulla ghiaia del giardino di fronte, scambio di brevi fischi convenzionali da un capo all’altro della strada.

L’uomo che all’alba porta il latte era interdetto: ha posato le bottiglie ed è dileguato rapidamente verso il sole sorgente. Si sentiva spaesato. Jeanson e i suoi amici saranno trattenuti probabilmente fino a che De Grulle non avrà terminato il suo giro nella Savoia. Poi verranno espulsi. Dovranno scegliere un altro Paese. In ogni caso non saranno consegnati alle autorità francesi.

Il loro arresto – l’autorità di Berna tiene a precisarlo – non è in alcun modo connesso con la condanna pronunciata contro di essi a Parigi. Esso è un fatto puramente amministrativo per la ragione che da tempo ormai a Jeanson è stato rifiutato il permesso di soggiorno sul territorio elvetico. Egli potrebbe chiedere l’asilo politico: ma a parte il fatto che gli sarebbe probabilmente rifiutato, è sicuro che egli non lo chiederebbe mai. L’asilo politico comporta l’impegno a rinunciare a ogni attività politica: e Jeanson vuole andare jusqu’au bout, come egli dice, fino alla fine. Egli è persuaso che la sua parte, quella parte dell’opinione pubblica che egli ha messo in movimento, finirà per prevalere. Non si batte contro uno Stato: “mi batto – egli dice – contro un regime”.

Silvano Villani