1950 – Rosinella bestemmiava e mangiava il sapone

Silvano Villani, Rosinella bestemmiava e mangiava il sapone, “Il Momento”, anno VI, n. 12 – giovedì 12 gennaio 1950

Grottaferrata – La città delle ragazze, sorta nei Castelli Romani, è finora la prima ed è l’unica del genere non solo in Italia, ma anche in Europa e forse nel mondo. Essa è a Borghetto, frazione di Grottaferrata a quindici chilometri da Roma, ed è costituita da una villetta a due piani e di qualche metro quadrato di orto.

La Befana è arrivata tardi per le giovani cittadine, perché il medico, il dentista e qualche altro amico della signora Maria avevano preferito festeggiare l’Epifania in famiglia, tra i loro figli, e rimandare a domenica la visita alla Domus Nostra con i doni per le ragazze. Di esse, la maggiore non passa i quindici anni: in quel batter d’occhio che è stata la loro vita ben altro avevano conosciuto che i libri di fiabe e le caramelle regalate loro in questi giorni. Un pupazzetto è toccato a Rosinella, una morettina di dieci anni, che ride sempre, non appena uno le rivolge la parola o le fa un cenno affettuoso. La prima volta che la portarono in chiesa, mentre il prete era all’elevazione e la gente chinava il capo in silenzio, chissà perché, gridò una bestemmia tale che avrebbe atterrito un taverniere. Ne conosce moltissime, di quelle lunghe, elaborate, complesse e nei primi tempi ricorrevano con estrema frequenza sulle sue labbra sempre pronte al sorriso. Oppure diceva a chi le veniva vicino: “E che ce l’ha il giovinotto per stanotte?”. Il repertorio delle sue espressioni non usciva dall’ambito di questi argomenti. Perciò adesso parla poco. Quando alla Domus le fecero vedere il letto, andò a stendersi sotto, e la prima volta che le posero in mano un pezzo di sapone credette che fosse da mangiare e l’addentò. Leccava i piatti, mangiava con le mani. E rideva. L’esame ha rivelato in lei un trauma psichico dovuto a violenze virili subite non si sa a che età. Costituzionalmente e psichicamente è rimasta all’età di cinque anni.

A questo ha contribuito anche la madre che tentò due volte d’ucciderla, prima gettandola nel fuoco – e sul corpo della ragazzina sono rimasti i segni, una orrenda cicatrice di scottature di terzo grado che le fascia la vita – e poi buttandola nel fiume.

Alla Domus è stata addestrata a fare o non fare certe cose – a dormire sopra e non sotto il letto, a non mangiare il sapone, a non leccare i piatti, a non dire certe cose. Ma non si è riusciti a farle superare la barriera di terrore. E’ rimasta lì dietro, una piccola selvaggia di cinque anni, che ride sempre e che ora sa dire solo: “non lo farò più”. Ha una risata franca, allegra, ma chi conosce la sua storia, vi avverte anche una piega d’incertezza, e capisce quanto poco basterebbe per tramutarla in un urlo di spavento.

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La società ha ora deciso che le “case chiuse” sono immorali e ne ha decretato l’abolizione, ma nessuno aspetta che un raffreddore diventi polmonite per curarsi.

Perché si cominciasse a pensare anche alle ragazze, c’è voluta la passione d’una donna che con quest’opera tenta ora di colmare il vuoto scavato nella sua vita dalla morte del marito.

A dire il vero la vedova Tinto Rocca aveva accarezzato il progetto per molti anni. Fu tuttavia dopo il lutto che si decise a parlarne a padre Flanegan, il creatore della prima “Boy’s town”, di cui, fra l’altro, la signora è cittadina onoraria. E padre Flanegan le disse: “Cominci. Dal nulla, con poco, ma cominci. Avrà il mio appoggio morale”.

Maria Tinto Rocca è italiana d’origine, e cittadina americana, e negli Stati Uniti doveva sorgere la prima “Girl’s town”. Ma scoppiò la guerra, ed ella si arruolò nella divisione italiana dei servizi economici del Ministero degli Esteri. Alla fine della guerra passò all’Unra, e con l’Unra venne in Italia, dove decise di istituire la prima “città delle ragazze”.

Tornò oltreoceano per raccogliere i fondi. Organizzò tra i suoi amici un “American Council for Domus Nostra” che le fruttò qualche dollaro, e vendette tutto quel che possedeva, ricavandone quindici milioni di lire circa. In primo luogo bisognava comprare una casa con un po’ di giardino intorno, e di questo incaricò un gruppo di persone in Italia. Ma il gruppo di persone, di cui per pietà non facciamo i nomi, comprò vicino a Roma una tana di topi e di scarafaggi in cima a un dirupo, la pagò un milione e disse di averne spesi due. Così la signora ci rimise un milione, tanto per cominciare, e aprì la prima Domus Nostra in quella tana di topi, dove accolse otto ragazze. Era il settembre del ’47. Presto si accorse che era impossibile continuare ad abitarci e fu tanto fortunata da trovar a rivendere la catapecchia in cui nel frattempo erano stati fatti dei lavori. La Domus Nostra si trasferì così nella villetta dove ha sede tutt’ora – una villetta di otto o nove vani, di cui quattro sono occupati da profughi, e gli altri dalle ventidue ragazze.

In due anni e rotti, Domus Nostra ha divorato le risorse della signora, i risparmi offerti da qualche amica, i fondi dell’”American Council”, cinquantamila lire donate dal Papa, e centodiecimila donate dall’Ente per la Protezione Morale del Fanciullo. L’Ente aveva promesso anche di corrispondere 3000 lire al mese pro capite, ma la Domus non ha visto una lira finora. L’”American Council” invece continua a inviare i suoi contributi, che però non superano le centomila mensili. Mentre la Domus ne spende trecentomila. Due medici e un dentista si prestano gratis, il personale – quattro donne – è volontario, volontaria è la maestra.

La Domus assunse fin da principio il suo carattere di anticollegio sistematico. Niente uniformi, niente direttrice, niente sorvegliante. La signora è “mammina”, le assistenti sono “zie”, i medici “zii”. “E ho avuto ragione io” diceva ora la signora: “non rubano, non scappano, non fanno niente di quel che facevano prima di venir qui. Io mostro di aver fiducia in loro: le mando a fare la spesa, do loro le chiavi della dispensa, le lascio uscire quando vogliono. Ed è andata sempre bene”.

Le ragazze imparano a fare dei lavori che le mettono in grado di trovarsi un posto quando escono dalla Domus, a diciott’anni. Talvolta escono anche prima, perché il padre o la madre le rivogliono a casa. Questo è capitato a Romana, per esempio. Romana entrò alla Domus che era bambina. Entrò piangente, sfuggita all’ultimo tentativo di violenza del padre. Alla Domus si fece donna. Il padre la vide e la rivolle a casa in un periodo che la moglie aveva dovuto riparare all’ospedale per dare alla luce l’ennesimo bambino.

Altro caso quello di Lucia. La madre aveva piantato lei, il marito e altri otto figli per seguire al nord gli Alleati. I figli cominciarono allora a pensare ognuno per sé, dato che il padre impiegato alle ferrovie, ben poco tempo e danaro poteva più dedicare a loro. La maggiore delle ragazze si diede subito alla “vita”. Lucia invece fu recuperata in tempo dalla Domus. Senonchè la madre è tornata e ha rivoluto indietro la figlia, e Lucia, quindicenne, tornata a casa, ha preso ora la strada della sorella maggiore.

“Per fortuna, non sempre il nostro lavoro va perduto in questo modo”, dice la signora. “Ecco Marisa, per esempio: bisognava vederla quando entrò qui. Un chiodo”. Così malridotta, che le piaghe per le ultime botte ricevute rimasero aperte per mesi. Aveva otto fratelli quando entrò alla Domus, e la madre moribonda, che spirò qualche giorno dopo. Sul letto ancora caldo il padre ci portò una ragazza in procinto di regalare a Marisa un altro fratellino.

La madre di Pia, infine, riceveva in casa gli uomini, davanti a lei, e lei in assenza della madre invitava i ragazzi della strada per fare con loro quel che aveva visto fare prima dalla madre. “Così ce ne sono migliaia e migliaia”, dice la signora. “Ma dove le metto? Il mio progetto sarebbe di trovare un po’ di terreno per costruirci quattro o cinque casette. Il terreno forse si può trovare, ma come faccio a pagarlo? Oramai le nostre risorse sono finite”.

Silvano Villani