1950 – Moriremo di fame o di paura nel 2000?

Silvano Villani, Moriremo di fame o di paura nel 2000?, “Il Momento”, anno VI, n. 40, giovedì 9 febbraio 1950

 I

Stando ai calcoli, nel Duemila saremo in tre miliardi, vale a dire – sempre secondo i calcoli – troppi per questo mondo, che si va facendo ogni giorno più piccolo e povero in maniera preoccupante. Abbiamo obbedito al precetto al di là di ogni aspettativa: ci moltiplichiamo vertiginosamente.

Quanti erano gli uomini nel 5000 avanti Cristo? Forse venti milioni, non più comunque di quaranta. Siamo agli inizi della civiltà: nascono in quest’epoca le prime città, si inventa la scrittura, si comincia a far di conto, a lavorare i metalli, a coltivare la terra, a scambiare le merci. Sorgono le prime comunità organizzate. Tutto questo favorisce la moltiplicazione, e la specie tocca i primi cento milioni tra il 1000 e il 500 avanti Cristo. Durante i primi anni dell’Impero Romano siamo già a duecento milioni: il doppio. Ma è col secolo XVII che il ritmo della moltiplicazione diventa vertiginoso: 545 milioni nel 1650, un miliardo nei primi decenni del XIX secolo, due miliardi al principio del XX. Oggi, 1950, due miliardi e trecentocinquanta milioni. Se niente di spaventoso capita al pianeta nel frattempo, prima dell’anno Duemila saremo perciò in tre miliardi. La popolazione del mondo aumenta di 25 milioni di unità all’anno, come dire che ogni giorno 75.000 nuovi pellegrini approdano a questa terra. Nel computo naturalmente sono calcolati i decessi: l’aumento è assoluto, ma la cifra vale per oggi, non per gli anni futuri. La popolazione del mondo aumenta dell’1,15 per cento rispetto al suo totale. Questo uno per cento oggi vale 25 milioni, dato il totale, ma se cresce questo, cresce anche il valore dell’uno per cento. La cifra quindi sarà sempre maggiore coll’andare degli anni. Bisogna inoltre tener presente che in questo percento entrano non solo le nascite, ma anche le vite umane salvate dalla medicina: in India soltanto ci sono ogni dieci anni tre milioni di cittadini in più grazie agli interventi delle organizzazioni sanitarie. Molti altri continuano ancora a morire, naturalmente, in seguito a malattie, a carestia, in India e altrove, ma la civiltà è in cammino, e con la civiltà la medicina e la scienza in genere, che si propongono di salvare un numero sempre maggiore di vite umane, e magari anche di vincere la morte – ma non, comunque, di controllare le nascite. E per questa ragione nel Duemila forse moriremo di fame.

Diciamo Duemila tanto per fissare una data: si morirà di fame anche prima di arrivare all’anno fatale; si muore di fame oggi, in moltissime parti del mondo. Ma non perché la ricchezza è ingiustamente distribuita, o meglio, non solo per questo. Le ricchezze del globo sono un miliardo e seicento milioni di ettari di terra. Per procurarsi una dieta che sia scientificamente sufficiente, un individuo ha bisogno di un ettaro di terra. Siamo due miliardi e trecentocinquanta milioni di individui: il mondo già non basta per nutrirci tutti. Mancano, matematicamente parlando, settecentocinquanta milioni di ettari.

Questo per restare all’oggi. Ma se guardiamo al domani, all’immediato domani, la situazione si presenta ancora più complicata. I moderni metodi di coltivazione sottopongono la terra a una quotidiana erosione, cosicché la superficie produttiva, anziché aumentare diminuisce: ben 20.000 ettari di terra al giorno diventano sterili, e non producono neanche più erba per il bestiame. Al tempo stesso diminuiscono le altre risorse: il minerale di ferro a più alto rendimento negli Stati Uniti è ormai agli sgoccioli, lo stesso si può dire dello stagno, del rame, del petrolio. L’industria che incessantemente perfeziona i suoi metodi di sfruttamento per rispondere alle richieste ogni giorno crescenti sta saccheggiando un capitale di consumo che non si rinnoverà mai più. Risorse in diminuzione, popolazione in aumento; 20.000 ettari di terra in meno al giorno, al giorno 70.000 bocche in più da sfamare: le conclusioni ognuno le può trarre da sé. “L’uomo moderno – ha scritto Ward Shephard in Food and Famine (Cibo e carestia) – ha perfezionato due procedimenti, ciascuno dei quali è in grado di distruggere da solo tutta la civiltà: la guerra atomica e l’erosione del suolo”.

Ci sono naturalmente gli ottimisti, che credono nei miracoli della scienza, nel progresso indefinito della civiltà, nei valori intramontabili e che si rifiutano d’affrontare il problema. I più ottimisti di tutti sono gli uomini politici in generale, e i Grandi in particolare, che trovano sempre il modo di rimettere alle commissioni speciali dei sottocomitati tutte le questioni relative alla popolazione, al vettovagliamento, e così via, che sorgono nel corso delle loro conferenze, riservandosi di discutere il problema secondo loro molto più importante e complesso di chi dev’essere l’oppressore e chi l’oppresso. Quando invece affrontano il problema, ecco che gli ottimisti di colpo diventano ottimisti moderati, come per esempio sir John Russell, ex presidente della British Association, che lo scorso anno ha fatto un’interessante rassegna della situazione mondiale sotto la prospettiva “incremento demografico e vettovagliamento”. Il fatto gravissimo che è balzato subito in evidenza è stato naturalmente l’erosione del suolo, che però non è parsa affatto un problema insolubile. E’ stato citato a questo proposito il caso di Dust Bowl (scatolone di polvere) degli Stati Uniti, una vasta regione diventata sterile in seguito allo sfruttamento intensivo, e che rifertilizzata, produce ora più grano di prima. Nuovi metodi di coltivazione, dicono gli ottimisti, potranno aumentare la produzione agricola, la fabbricazione di fertilizzanti potrà essere raddoppiata con immenso vantaggio dei territori arretrati, dove la produzione di grano è ora meno di un terzo di quella dei paesi più progrediti, e meno di un quinto rispetto alla produzione delle fattorie più moderne di questi paesi. L’irrigazione potrà trasformare totalmente il quadro agricolo di regioni semiaride, e nuove terre che non conoscono ancora la vanga venir aggiunte a quelle produttive. E poi, perché no? Si può fare assegnazione anche sulla scienza, e sulla fabbricazione di nuovi alimenti sintetici, di estratti e simili. Insomma, un problema complicato, secondo gli ottimisti, ma niente affatto insolubile.

I quali ottimisti però non tengono conto d’un fatto di estrema importanza, che la popolazione del mondo in larga maggioranza oggi non gode di una dieta sufficiente. Mancano sempre, cioè, tanto per cominciare, 750 milioni di ettari. E se anche si riuscirà con diavolerie scientifiche a far sì che un miliardo e 600 milioni di ettari producano cibo sufficiente per due miliardi e 350 milioni di esseri umani, questi non saranno più due, ma tre miliardi, e sempre meno disposti a tirare ulteriormente la cinghia.

 

Silvano Villani