1950 – L’ombra del terzo uomo sul delitto di Ripatransone

Silvano Villani, L’ombra del terzo uomo sul delitto di Ripatransone, “Il Momento”, anno VI, n. 120, domenica 30 aprile 1950

Ripatransone, 29 aprile – Questa sera è partito per Roma il verbale sui fatti di Ripatransone redatto dal tenente dei carabinieri Sardi, che ha condotto le indagini insieme con i funzionari di Ascoli. Apparentemente, perciò il caso è chiuso. Il quadro degli avvenimenti come è stato tracciato nel rapporto, è preciso e convincente; il cadavere di Franca Schintu è stato ricomposto dopo l’autopsia, e da tre giorni giace sotto un rettangolo di terra non consacrata al cimitero; Guido Mazzoli è all’ospedale con una pallottola che gli balla sotto l’osso zigomatico destro e i medici aspettano che scenda per potergliela estrarre senza deturpargli la faccia. Tra dieci giorni, forse, egli potrà uscire.

Su Ripatransone, oggi, è tornato il sole e l’azzurro, dopo tante crucciose giornate di pioggia: l’Adriatico lampeggiava 500 metri più sotto e all’orizzonte, stamattina che era limpido, si potevano scorgere le isole della costa dalmata. Una grande calma, finalmente, dopo tanto andare e venire di poliziotti, carabinieri e giornalisti. Verso le 16, due vecchi preti, curvi sotto il sole, hanno attraversato lentamente la piazza e sono entrati nella chiesa. Ripatransone si è lavata del sangue, ha spazzolato le sue strade ultracentenarie ed è tornata a sonnecchiare tra le sue mura trecentesche. Non pare credibile che ancora una settimana fa, proprio qui, sia successo tutto quello che è successo.

Il meccanismo della tragedia è stato smontato, esaminato pezzo per pezzo, e rimontato. Funziona. Ed a molti interrogativi, non poco complicati, ha esaurientemente risposto. Non a tutti, però; per esempio, nel rapporto non è detto quando e da chi è stata riparata la Beretta 6/35, ed è questa la sola e problematica pista che al tenente Sardi resta da battere. Ma ecco, a conclusione del grosso delle indagini, questo piccolo particolare, la cui spiegazione in nessun modo probabilmente contribuirà a modificare l’attuale versione dei fatti, ecco che rievoca di nuovo l’ombra del terzo uomo, non come partecipante diretto, ma come complice, come mandatario forse, e alla quale rinviano alcuni punti di secondaria importanza, per il momento, ma rimasti ancora nell’ambiguità.

Quando nel 1944 la Franca venne da Roma a Ripatransone aveva con sé una Beretta 6/35 fuori uso per via del percussore che era rotto. Nel 1945 il marito, per conto della moglie, portò l’arma all’armaiolo di Ripatransone, ma questi non riuscì a farci niente e qualche giorno dopo gliela restituì così come stava. Si tratta della Beretta con cui Franca ha sparato al marito e si è uccisa e che, dunque, era stata riparata. Dall’esame, infatti, è risultato che il percussore rotto è stato sostituito con uno nuovo, ma inserito nell’arma in un modo piuttosto rudimentale, da persona pratica di lavori manuali, da un operaio, da un artigiano, ma non in ogni caso da un conoscitore d’armi.

Tre volte e non due, Franca ha caricato l’arma e quattro erano i proiettili. Il primo è stato trovato, come è noto, insieme con il caricatore, nella tasca della giacca del marito in un armadio; aveva il fondello intaccato: il percussore vi aveva battuto sopra ma senza farlo esplodere; il secondo proiettile ha ucciso Franca; il terzo ha ferito il marito. Il quarto si trova conficcato in un muro dello scantinato, dove un bossolo è stato trovato mezzo interrato. Nella borsetta della donna, infine, è stato rinvenuto il percussore rotto. L’arma, perciò, era stata riparata recentemente e Franca era andata a provare, forse la stessa domenica, nello scantinato. Ed è questo un importantissimo particolare. Ciò significherebbe che ella aveva in mente da tempo un piano, in cui però la sua morte non era calcolata. Possiamo dire con assoluta certezza, che se il marito fosse rimasto ucciso, Franca oggi sarebbe ancora in vita. Né ella si uccise per rimorso, o perché improvvisamente pentita di ciò che aveva commesso in un attimo di furore. L’attimo di furore venne poi: ella si uccise per disperazione, si uccise perché il suo piano era fallito.

E il piano era il seguente: uccidere il marito, ma in modo da far passare questa morte per un suicidio. Solo così si spiega la presenza del caricatore nella tasca della giacca nuova che Guido usava mettere nei giorni di festa – e quel giorno era domenica. Sparato il colpo, invece, vide il marito balzare dal letto e chiudere la porta, lo udì muoversi nella stanza, tutt’altro che morto. Allora possiamo ricostruire così i fatti: ella caricò la postola, la posò in qualche parte vicino alla porta chiusa, scese nello scantinato, prese la scala a pioli e per la finestra entrò nella stanza. A che scopo? Non per soccorrere il marito ferito, ma per tutt’altra ragione, per finirlo. E invece l’uomo non c’era più. Allora aprì la porta, afferrò la postola e si uccise proprio perché non c’era più speranza. Questo ci deve ancora far riflettere? Non si può supporre che Franca mirasse soltanto a liberarsi del marito. Essa aveva in mente qualche altro scopo ancora, per esempio ricostruirsi una vita, risposarsi forse, ed aveva delle buone ragioni per credere che tutto questo le sarebbe stato possibile. Meditava una fuga, e non da sola.

 

Silvano Villani